La premier chiede una poltrona di peso a Bruxelles con l’obiettivo di far valere gli interessi di Roma nelle grandi partite economiche. Il problema però è trovare alleati, dopo che il governo in questi anni ha spesso ostacolato la politica industriale della Commissione
Da una parte le poltrone, quelle che usciranno dal complicato gioco a incastri che deciderà la squadra della Commissione di Bruxelles. Dall’altra le grandi partite su cui gioca il futuro dell’economia dell’Unione. Dall’assetto dell’esecutivo comunitario si comincerà a intuire quale direzione prenderà l’Europa, vaso di coccio, ora più che mai, tra la Cina e gli Stati Uniti. Questo è lo scenario in cui si muove Giorgia Meloni, che proverà a strappare un’intesa con i leader di Popolari, Socialisti e Liberali, la vecchia-nuova maggioranza Ursula ancora da testare in Parlamento dopo l’intesa raggiunta ieri sulle tre nomine principali nelle istituzioni comunitarie.
Dall’assetto dell’esecutivo comunitario si comincerà a intuire quale direzione prenderà l’Europa, vaso di coccio, ora più che mai, tra la Cina e gli Stati Uniti. Le trattative su cui si eserciteranno le diplomazie nei prossimi giorni servono anche a misurare le ambizioni e l’influenza di ciascun paese. La premier punta a una nomina di peso. Un commissario che, almeno sulla carta, sia in grado di proteggere gli interessi dell’Italia in alcuni settori chiave per il nostro paese. Economia o Concorrenza, si è detto e scritto nei giorni. Ora sembra che Raffaele Fitto, il nome che al momento raccoglie più consensi, potrebbe sbarcare a Bruxelles come responsabile di Bilancio e Programmazione economica.
Si vedrà. Di certo il governo di Roma non può permettersi di giocare di rimessa quando si discuterà di politica industriale. Il campo di gioco è sterminato. Comprende, per fare solo qualche esempio, energia e difesa, acciaio, automotive e trasporti in generale.
Il racconto che corre sulla bocca di tutti, a questo punto, è la vicenda Alitalia, destinata a ripartire con la nuova insegna Ita e sotto l’ala del gruppo Lufthansa. Il puntiglio con cui l’Antitrust europeo ha passato al setaccio per mesi e mesi ogni minimo aspetto dell’operazione, ormai ben instradata ma non ancora conclusa, si spiega anche con il peso politico di Parigi, che difende gli interessi di Air France.
Partita d’acciaio
Sull’acciaio, per dire, in Italia stiamo ancora aspettando il via libera di Bruxelles al prestito ponte da 320 milioni indispensabili per evitare la chiusura immediata dell’ex Ilva di Taranto. Per rilanciare lo stabilimento, però, nei prossimi anni serviranno somme ben maggiori e anche in appoggio a investitori privati, ammesso che arrivino. E qui le decisioni europee segneranno la strada da percorrere. Va poi considerato che l’intera siderurgia nazionale è appesa alle scelte di Bruxelles. A fare la differenza, nei prossimi anni, sarà la politica commerciale, dazi e altro, verso i produttori asiatici (Cina e India in testa). Altrettanto importante sarà la normativa in campo ambientale, ferocemente contestata dai produttori nostrani.
Va detto che il governo Meloni sin da principio si è messo di traverso a quasi tutte le direttive green partorite dalla Commissione. L’esempio più recente è quello del regolamento sul ripristino della natura, approvata dal Consiglio europeo con il voto contrario di Roma. Nei mesi scorsi Roma ha dato battaglia anche sulla direttiva su riciclo e riuso della plastica. Con qualche successo, visto che le norme sono state in buona parte depotenziate.
Anti green
Questi (e altri) precedenti lasciano intuire in che modo Meloni pensa di impiegare lo spazio di manovra supplementare che spera di ottenere a Bruxelles. Nessuna sorpresa. La maggioranza di governo si batte da sempre contro le presunte “follie green” dell’Europa. Gli slogan però lasciano il tempo che trovano e a decidere, alla fine, sarà la capacità di trovare gli alleati giusti per far valere quelli che si considerano gli interessi del paese. Sul futuro dei trasporti, che sarà di certo uno dei principali terreni di confronto, Roma da tempo fa campagna contro il regolamento europeo che prevede lo stop dal 2035 alla vendita di auto con motore a combustione.
Di recente, tra i partiti europei, sono aumentate le voci che chiedono di ripensare questo aspetto della politica verde, ma non è affatto detto che all’atto pratico i diversi interessi in campo si muovano nella stessa direzione. Nei mesi scorsi, per esempio, si è risolto a favore della Germania il confronto sui biocarburanti, che a Roma (e all’Eni) godono di un sostegno senza se e senza ma. Un episodio, tra i tanti, questo, che serve a ricordarci la distanza tra la realtà e i discorsi da monologo su Facebook.
«L’Ue “deve darci il ruolo che ci spetta», va ripetendo da mesi Meloni. Quale sia questo ruolo, però, dipende soprattutto da lei, dalla premier, dalla sua capacità di tessere alleanze con altri partner. Ricordando, innanzitutto, che nessun paese è in grado, da solo, di vincere la sfida globale con Cina e Stati Uniti. Una sfida che, nel vecchio continente, si gioca mettendo in comune risorse e tecnologia. L’etichetta è quella di un Industrial act in grado di competere con l’Inflation Reduction Act statunitense che attira negli Usa decine di grandi imprese straniere a suon di sussidi miliardari, anche, ma non solo, in settori ad alto potenziale di crescita come i chip o le batterie.
Peccato che il governo si sia finora dimostrato attento più che altro alla difesa degli interessi di lobby rumorose come i tassisti o i balneari. Tanto che anche nelle raccomandazioni inviate pochi giorni fa all’Italia, la Commissione è tornata a sottolineare che lo sviluppo delle imprese e la tutela dei consumatori continua a essere ostacolato da barriere alla concorrenza in settori come le farmacie, gli ordini professionali, i servizi di noleggio auto con conducente. Questioni centrali, anche e soprattutto per i cittadini. Ma Meloni preferisce parlar d’altro.
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