La presidente Christine Lagarde ha di recente lasciato intendere che «ragionevolmente nel prossimo futuro» la Bce procederà a una «rivalutazione della strategia decisa nel 2020-21»: non sarebbe mai troppo presto per farla. Si parla di strategia, lasciando intendere che la rivalutazione riguardi le modalità operative, mentre sarebbe opportuno estendere la riflessione anche al modello economico sottostante il suo operato, e altri argomenti che toccano gli obiettivi e le finalità della Banca Centrale alla luce della mutata realtà economica rispetto al momento in cui l’istituzione stessa fu pensata.

Molte di queste considerazioni vanno ben oltre il mandato del Governing Council in quanto riguardano il suo Statuto che è parte dei Trattati: ma sarebbe pur tuttavia utile una qualche riflessione critica sui dogmi che reggono la gestione della moneta unica.

Il modello

La prima questione riguarda la validità del modello economico sottostante le decisioni della Bce. È acclarato che l’impennata dell’inflazione ha colto di sorpresa la Banca Centrale, come pure la rapidità della sua discesa, prova ne sia le continue revisioni al ribasso dell’inflazione attesa. L’inflazione può essere il risultato di shocks dal lato della domanda, come dal lato dell’offerta.

Gli shocks di domanda sono il risultato di un eccesso di liquidità e credito, che a volte si sommano a una politica fiscale espansiva, e che generano una domanda di beni e servizi eccedente l’offerta; i produttori hanno quindi gioco facile ad aumentare i prezzi, inducendo richieste di aumenti salariali, che i produttori scaricano poi sui listini per mantenere i margini (il cosiddetto “second round effect”).

L’abbondanza di credito facilita l’uso della leva nelle operazioni finanziarie e immobiliari, gonfiando le valutazioni delle attività, che a loro volta generano un effetto ricchezza, aumentando la domanda aggregata.

È la situazione in cui la politica monetaria è più efficace perché attraverso la restrizione creditizia riduce l’eccesso di liquidità alla base dell’inflazione.

Non c’è dubbio che le politiche messe in atto per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia abbiano creato un eccesso di domanda.

Ma con l’arrivo del Covid e dei rischi legati ai mutati equilibri geopolitici, gli shocks dell’offerta appaiono predominanti come per esempio, la chiusura dei porti cinesi, le interruzioni nella logistica e l’accorciamento delle filiere di produzione che ha prodotto ritardi nelle consegne di materiali e componenti essenziali riducendone l’offerta e aumentandone i prezzi; il protezionismo e le tariffe che hanno fatto lievitare i costi di molti beni; la guerra in Ucraina che ha causato un balzo nel costo dell’energia; fattori idiosincratici specifici a singole imprese o settori, come gli incidenti della Boeing che ha imposto un taglio nelle consegne di aerei, o le tensioni con la Cina riguardo Taiwan che hanno colpito i due principali produttori di semiconduttori; la priorità data dai governi alla stabilità della struttura proprietaria delle aziende nazionali a discapito della concorrenza; i sussidi per la produzione di rinnovabili.

L’elenco è lungo. L’insistenza con cui la Bce fa ancora oggi riferimento alla dinamica salariale e ai margini delle imprese per giustificare il mantenimento di una politica restrittiva, fa presumere che ritenga l’eccesso di domanda la causa principale di inflazione. Ma se sono gli shocks da offerta a prevalere, la politica restrittiva rischia di causare un inutile rallentamento economico.

Un rischio tutt’altro che remoto visto che tutti i recenti indicatori economici europei indicano stagnazione e i risultati del secondo semestre delle maggiori imprese in molti settori come auto, alimentari, linee aeree, beni di lusso, prodotti per la persona, segnalano ricavi e margini in discesa.

La comunicazione

La seconda questione riguarda la trasparenza nella comunicazione e il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Se l’obiettivo dichiarato della Bce è l’inflazione, trasparenza richiede che la sua previsione circa la dinamica dei prezzi sia resa esplicita (come lo era con la forward guidance); se questa risulta a posteriori differente dal dato di inflazione registrato, chiarire le ragioni dell’errore di previsione; spiegare il meccanismo attraverso il quale si pensa che la politica in essere riporti l’inflazione in linea con l’obiettivo; e in mancanza di una previsione esplicita dell’inflazione a favore di una politica che dipende dal flusso futuro dei dati economici, l’approccio attuale della Bce, chiarire la funzione di reazione, ovvero come la politica monetaria reagirà a seconda di quale scenario economico preverrà.

Ma niente di tutto questo traspare dal comunicato dell’ultima riunione della Bce dove si dice che questa “continuerà a decidere il grado e la durata dell’attuale politica restrittiva, riunione dopo riunione sulla base dei dati che saranno resi disponibili. Il Governing Council non è vincolato a una particolare traiettoria dei tassi”.

Né viene fornita un’analisi di come si prevede che il livello dei tassi incida sull’ attività economica e quindi sul livello dei prezzi. La Bce controlla i tassi a breve, non quelli a lunga da cui dipendono però le decisioni di investimento; conta la quantità di credito erogato, ma il tasso di interesse è solo una delle componenti sia della sua offerta, sia della domanda; la liquidità in circolazione dipende dalle riserve bancarie e dalle operazioni di tesoreria, ma la Bce non chiarisce il legame tra questi strumenti e il livello dei tassi; e le compravendite di titoli (quantitative easing e tightening), vengono viste prevalentemente come strumento per gestire possibili crisi del debito pubblico (nel 2011-12 e nel 2020 con lo scoppio della pandemia) più che la liquidità del sistema.

Il rischio della scarsa trasparenza è duplice: aumenta la volatilità dei mercati, che reagiscono eccessivamente a ogni dato cercando di anticipare le mosse della Banca Centrale; e può portare a un grado eccessivo di restrizione perché la politica monetaria agisce con ritardo in quanto i dati economici rappresentano necessariamente la situazione economica passata, anche perché molte componenti dell’indice dei prezzi sono riviste in modo infrequente (tariffe, listini dei beni durevoli, affitti, polizze assicurative, costo dei trasporti, educazione e sanità).

L’ambiguità dello Statuto

A monte due i problemi. A differenza della Federal Reserve, lo Statuto della Bce prevede che il suo unico obiettivo sia la stabilità dei prezzi, senza alcuna menzione alla crescita. C’è in questo un’ambiguità di fondo perché l’obiettivo della stabilità dei prezzi a prescindere o è irrealistico, o socialmente insostenibile. Questo è un primo dogma da mettere in discussione.

Il secondo riguarda l’obiettivo di inflazione del 2 per cento. Non c’è nessuna valida teorica economica che lo giustifichi. Anzi ci sono molteplici ragioni per sostenere che il tasso di crescita dei prezzi di equilibrio di lungo periodo sia oggi superiore al 2 per via della de-globalizzazione (la crescita della Cina e dei paesi emergenti, nonché la delocalizzazione delle filiere di produzione sono probabilmente la principale ragione dietro la stabilità dei prezzi prima del Covid), l’aumento strutturale dei debiti pubblici e l’invecchiamento della popolazione nel mondo.

Significativo che la Banca Centrale di Nuova Zelanda, che per prima adottò l’obiettivo del 2 per cento, sia passata a una molto più ragionevole forchetta tra l’1 e il 3 per cento.

L’obiettivo fisso del 2 per cento della Bce è inoltre asimmetrico, vale a dire il “costo” per la Banca Centrale di un’inflazione superiore al 2 è superiore a quello di un’inflazione inferiore all’obiettivo. Ne consegue che la BCE tenderà a privilegiare in media un tasso inferiore al 2, implicando una politica monetaria eccessivamente restrittiva.

Così è stato nei 15 anni precedenti al Covid: la crescita mediana annua dell’indice dei prezzi nell’area euro è stata dell’1,7 per cento. Un “fallimento” della BCE di cui nessuno ne parla.

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