- L’impennata dei prezzi causata dalla guerra accelera e facilita la transizione ambientale.
- Bisognerebbe chiarire all’opinione pubblica che cosa si vuole e si può raggiungere con la transizione verde.
- Ci fosse chiarezza su questa decisione, il carbon capture per le attività industriali e la produzione di idrogeno, o la costruzione di rigassificatori, non sarebbero una scelta ottimale per raggiungere il net zero nel 2050, ma pur sempre meglio del sogno irrealizzabile di un mondo alimentato solo da fonti naturali.
I compiti per i governi europei sono tre: frenare oggi il rialzo dei prezzi dell’energia e mitigarne gli effetti; diversificare domani gli approvvigionamenti dalla Russia; e realizzare dopo domani la transizione alle rinnovabili.
Non ci sono facili soluzioni, e il problema è ulteriormente complicato dal fatto che le decisioni prese in ogni momento possono rendere più complessi i problemi negli anni successivi. Questo perché i governi democraticamente eletti sono fisiologicamente incapaci di perseguire strategie ottimali di lungo termine, come richiederebbe una politica energetica e il Green deal, legati come sono al consenso e alle scadenze elettorali.
L’impennata dei prezzi causata dalla guerra di Vladimir Putin, scoraggiando il consumo di energia da fonti fossili e incentivando gli investimenti nelle rinnovabili e in nuove tecnologie per ridurre le emissioni, accelera e facilita la transizione ambientale. In altre parole, crea un grosso problema oggi, ma contribuisce a risolvere quello di dopo domani. I governi, però, reagiscono alle istanze sociali di oggi e intervengono per limitare gli effetti del caro energia, evidenziando quello che è un vizio di fondo del Green deal: essendo un colossale investimento a lungo termine, presenta la maggior parte dei costi all’inizio, mentre i benefici arrivano solo nel tempo, una caratteristica che lo rende politicamente difficile da realizzare in modo efficiente.
Il caro energia odierno ha chiaramente una componente transitoria perché i prezzi incorporano il premio per il rischio che si arrivi a un embargo o a un taglio delle forniture russe (lo provano i prezzi decrescenti nel tempo dei contratti a termine). In questo caso la politica ottimale di intervento da parte dei governi europei sarebbe quella, come propone Mario Draghi, di imporre un tetto ai prezzi di gas e greggio, uguale in tutti i paesi europei per evitare distorsioni alla concorrenza, finanziato con debito emesso dalla Commissione e coperto da una imposta futura ad hoc.
In altri termini, per evitare che uno shock reale transitorio abbia conseguenze sulla crescita, se ne ammortizza temporaneamente l’impatto finanziando il settore privato, senza però pregiudicare la stabilità dei conti pubblici. La mutualizzazione del debito servirebbe a non penalizzare i paesi molto indebitati, come l’Italia, a fronte di uno shock comune.
In ordine sparso
I governi europei procedono invece in ordine sparso. In assenza di coordinamento, l’Italia interviene a calmierare i prezzi con la detassazione, ma ricorre anche ai sussidi a imprese e famiglie: un provvedimento meno efficiente perché i soldi sono fungibili e possono finire per sussidiare cose diverse dal caro energia.
Inoltre, in assenza di emissioni di debito comunitario, il ricorso al deficit comporta per l’Italia un costo aggiuntivo in termini di aumento dello spread (dai 130 di inizio febbraio fino a oltre 190); e per contenere il disavanzo, il governo tassa i profitti delle imprese energetiche, sottraendo però loro risorse che potrebbero investire nelle rinnovabili, complicando ulteriormente il problema futuro.
C’è poi la questione della diversificazione degli approvvigionamenti russi. L’impatto finale della diversificazione sarà neutro rispetto al costo dell’energia perché non cambiano né la domanda globale, che dipende dalla crescita, né l’offerta, che dipende dai giacimenti esistenti. Ma nel frattempo rischia di aumentare il costo energetico, prolungando il problema attuale.
La diversificazione farà mancare all’occidente il petrolio e il gas della Russia. Quest’ultima, però, non potrà dirottarli altrove per molti anni ancora perché non ci sono le infrastrutture per farlo. Ma nel frattempo i maggiori produttori di greggio, Arabia Saudita e Stati Uniti, esitano a fare gli investimenti necessari per aumentare la produzione perché rischiano di non essere redditizi: ci si attende che una volta completato il processo di diversificazione il prezzo del petrolio scenda significativamente.
Le forniture di gas dalla Russia sono poi legate a infrastrutture esistenti (i gasdotti), mentre la transizione a gas liquefatto (Lng) comporta per gli europei la necessità di costruire nuove infrastrutture; e per gli esportatori di Lng nuovi investimenti per aumentare la capacità produttiva, senza avere però la garanzia che la domanda europea rimarrà elevata, dato che il processo di transizione alle rinnovabili richiederà meno energia fossile. In questo caso, il problema di domani sta complicando il problema che dobbiamo gestire oggi.
La diversificazione
Una soluzione razionale per minimizzare il prevedibile caro energia durante il processo di diversificazione, sarebbe riattivare tutta la capacità esistente destinata alla dismissione (carbone e nucleare) per un periodo limitato nel tempo: si ridurrebbero i costi elevati dei nuovi investimenti necessari a trovare approvvigionamenti alternativi alla Russia, e quindi anche il costo dell’energia durante la fase di diversificazione; con un impatto sulle emissioni che probabilmente non sarebbe significativamente diverso da quello che si avrebbe con il petrolio e gas fornito da chi sostituisce la Russia.
Il maggior costo energetico indotto dalla necessità di diversificare le fonti di approvvigionamento, escludendo quelle russe, può produrre inoltre un effetto perverso sul futuro, facendo aumentare il costo degli input per gli impianti e le infrastrutture di generazione da fonti rinnovabili: esemplari, in questo senso, le recenti perdite dichiarate dalle società leader nella costruzione di pale eoliche (Vestas, Siemens Gamesa, GE) nonostante il boom di domanda per le rinnovabili.
Il rischio è che, come per i pannelli solari, vinca la concorrenza asiatica, favorita da costi energetici più bassi ottenuti grazie anche a un maggior ricorso al carbone, più a buon mercato. Le obiezioni degli ambientalisti rischiano quindi di spingere i governi a decisioni controproducenti per la loro stessa causa.
Lo stesso vale per la ricerca di fonti alternative, dove si dovrebbe privilegiare la stabilità delle forniture e le certezze contrattuali a lungo termine: da questo punto di vista sarebbe quindi ragionevole preferire il gas estratto dall’Adriatico e i rigassificatori per l’Lng americano, a quello di paesi come Nigeria o Algeria.
Infine, ci vorrebbe maggiore chiarezza e realismo sugli obiettivi che si possono ragionevolmente raggiungere con la transizione alle rinnovabili. Non è realistico pensare che nel 2050 consumeremo solo energia da fonti rinnovabili, avremo solo auto elettriche e case riscaldate con idrogeno verde. Quanti chilometri quadrati di pannelli solari e di campi eolici ci vorrebbero?
Gli obiettivi
Bisognerebbe chiarire all’opinione pubblica che cosa si vuole e si può raggiungere con la transizione verde, dando obiettivi sulla quantità di rinnovabili prodotta in Italia e le implicazioni in termini di costi (economici e paesaggistici) che questo comporta. Nonché decidere su quale fonte puntare per colmare l’inevitabile gap tra offerta di rinnovabili e domanda di energia. Spiegare che il gas, per esempio, è la nostra scelta e rimarrà comunque indispensabile, aiuterebbe anche nelle decisioni su come diversificare gli approvvigionamenti russi e minimizzare le sue emissioni.
Ci fosse chiarezza su questa decisione, il carbon capture per le attività industriali e la produzione di idrogeno, o la costruzione di rigassificatori, non sarebbero una scelta ottimale per raggiungere il net zero nel 2050, ma pur sempre meglio del sogno irrealizzabile di un mondo alimentato solo da fonti naturali.
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