L’epidemia porta con sé un nuovo inverno demografico, la colpa è anche di un quadro istituzionale poco chiaro. Negli anni ’60 i nuovi nati erano un milione, oggi 400mila
- La maggioranza dei demografi è convinta che non ci sarà un boom di nascite dopo la pandemia da Covid-19. Al contrario, come dopo altre crisi di natura economica, il tasso di natalità sembra destinato a diminuire.
- «Il fatto provato è che nelle società contemporanee, a bassa natalità e bassa mortalità, in corrispondenza delle recessioni economiche il numero di nati diminuisce», dice Chiara Comolli, ricercatrice dell’Istituto per le scienze sociali di Losanna, in Svizzera.
- I figli sono come un investimento a lungo termine. Nei momenti di incertezza le imprese rinviano gli investimenti, adottando un atteggiamento di attesa. «Lo stesso», spiega Comolli, «vale per le coppie».
Gli studiosi della popolazione hanno scoperto che dopo eventi catastrofici, l’influenza spagnola nel secolo scorso, un uragano o uno tsunami oggi, i gruppi umani tendono a compensare la forte mortalità con nuove nascite. Succede però quando a crescere è il tasso di mortalità dei bambini, cioè quando accade qualcosa di diverso di quello che sta accadendo a noi.
Abituati a fare previsioni, la maggioranza dei demografi è convinta che non ci sarà un boom di nascite dopo la pandemia da Covid-19. Al contrario, come dopo altre crisi di natura economica, il tasso di natalità sembra destinato a diminuire. «Il fatto provato è che nelle società contemporanee, a bassa natalità e bassa mortalità, in corrispondenza delle recessioni economiche il numero di nati diminuisce», dice Chiara Comolli, ricercatrice dell’Istituto per le scienze sociali di Losanna, in Svizzera: «Il punto è capire quanto durerà il calo».
Comolli studia gli effetti delle fasi di incertezza economica sui tassi di natalità. È riuscita a dimostrare l’impatto della crisi dello spread del 2011 sull’andamento delle nascite in Italia. Recentemente ha partecipato anche al primo gruppo di lavoro sugli effetti demografici della pandemia, messo in piedi su impulso del governo italiano.
Secondo Comolli, per capire cosa succederà vanno considerati diversi aspetti: quelli più tangibili come la perdita di lavoro, ma anche quelli meno tangibili. I figli sono come un investimento a lungo termine. Nei momenti di incertezza le imprese rinviano gli investimenti, adottando un atteggiamento di attesa, “wait and see“.«Lo stesso», spiega Comolli, «vale per le coppie: quando le crisi si innestano una sull’altra, fare una investimento a lungo termine è ancora più difficile».
L’eredità dei Novanta
I dati Istat mostrano già che i nati a dicembre, cioè i primi concepiti dall’inizio dei lockdown, sono meno del previsto. «Questo», dice Alessandra De Rose, docente di demografia alla Sapienza di Roma, «significa che i figli sono stati rimandati».
Anche la professoressa De Rose ha partecipato allo studio sugli effetti demografici della pandemia. Quando guarda al calo delle nascite lo fa dalla prospettiva della demografia e quindi con uno sguardo lungo: il 70 per cento dei “non nati”, se così possiamo definire la differenza registrata nel tasso di natalità, «sono dovuti alla diminuzione della generazione dei genitori, che oggi sono all’incirca i nati a metà degli anni Novanta». Proprio allora, dice De Rose, «si è registrato il picco negativo della natalità italiana». L’inverno demografico arriva da lontano, esattamente come lontano potrebbero arrivare gli effetti di questa crisi.
La riduzione del numero dei possibili genitori attuali è frutto di una serie di condizioni che sommate insieme hanno avuto un effetto negativo sulla natalità. «Le donne negli anni Ottanta hanno iniziato a partecipare di più al lavoro, ma erano poche in un ambiente lavorativo che non era pensato per la conciliazione vita lavoro. Il numero di matrimoni è diminuito, ma in un paese rigido come l’Italia questo non ha portato a un pari aumento delle convivenze», dice la professoressa. Insomma, il calo demografico è dipeso dalla sfasatura tra i cambiamenti sociali e le risposte istituzionali a questi cambiamenti sociali. Si potrebbe dire che è dipeso da un quadro socio-economico poco coerente, quello meno adatto agli investimenti per rimanere nella metafora.
Negli anni Duemila, c’è stata quella che i demografi chiamano «ripresina», troppo timida per avere la dignità di essere chiamata ripresa e dovuta soprattutto all’apporto dei migranti. Ma poi è arrivata la grande recessione.
La crisi demografica di oggi, dunque, è il risultato di comportamenti contingenti che i genitori hanno avuto durante il lockdown, ma anche di meccanismi di lunga durata, come li definirebbero gli storici. Quella di domani, invece, dipenderà anche dalla crisi economica attuale che è molto diversa dalle altre.
«Le crisi finanziarie degli anni passati hanno colpito soprattutto i lavori maschili, più influenzati dal ciclo economico. Questa invece, abbattendosi sui servizi, il lavoro di cura, ha colpito di più le donne», ragiona Comolli. Questo rende più difficile prevederne la ripercussione in termini di decisione di avere un figlio, anche perché stiamo parlando di una crisi sanitaria e psicologica che sta influenzando anche l’organizzazione del lavoro.
La maggioranza dei paesi europei sta registrando crolli delle nascite, in particolare nell’Europa del sud che ha difficoltà strutturali rispetto all’Europa del nord. Seppure con condizioni istituzionali di partenza differenti, tutti i paesi hanno anche subìto le conseguenze demografiche della crisi del 2008. Tutti, tranne uno.
L’eccezione tedesca
«La Germania proprio a cavallo della crisi ha fatto le riforme», dice Comolli. In questo caso l’espressione indica un pacchetto di incentivi per i genitori, allungamento della maternità, una politica dell’asilo per tutti. E non casualmente la Germania si conferma l’eccezione demografica in questo inverno 2020.
Il nostro paese ha appena varato la grande riforma dell’assegno unico, 250 euro a figlio fino ai 21 anni, una mezza rivoluzione a cui però sembrano già mancare i fondi. Ma al di là della singola misura a premiare secondo gli esperti è un sistema coerente di politiche e una visione di lungo periodo che non cambi rapidamente: come per gli investimenti, anche per attrarre nuovi nati ci vuole una stabile strategia.
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