Tre spettri aleggiano sull’economia mondiale. Il primo è l’inflazione americana. La Federal reserve ha dichiarato di voler raggiungere l’obiettivo del due per cento senza condizioni, anche a rischio di una recessione; che ci sarà un ulteriore aumento dei tassi quasi certamente dello 0,75; e, almeno secondo il mercato, non sarà l’ultimo: sarebbe la crescita dei tassi più rapida dagli anni Ottanta. Aumenti dei tassi e riduzione dei titoli in portafoglio della Fed continueranno dunque fino al ritorno di inflazione e aspettative al due per cento. Ma quali saranno le conseguenze di questa politica monetaria su attività economica e occupazione? Secondo le stime della stessa Fed, la disoccupazione dovrebbe aumentare poco, dal 3,7 al 4,1 per cento: un atterraggio morbido al quale nessuno crede.
La curva di Phillips descrive il rapporto tra aumento dell’inflazione e riduzione della disoccupazione: un incremento della domanda di beni e servizi aumenta la domanda di lavoro, creando pressione sui salari che, a loro volta spingono al rialzo i prezzi. Per anni, è stata il principale strumento di politica economica; la disinflazione globale l’ha mandata in pensione; ora viene riesumata per contestare l’ottimismo della Fed.
La domanda di lavoro negli Stati Uniti è ancora in crescita: i posti vacanti sono più numerosi dei disoccupati e anche nel mese di agosto sono stati creati 315mila posti di lavoro. Ma non si può sperare che le imprese assorbano il calo della domanda di beni e servizi riducendo le posizioni di lavoro offerte, invece di licenziare: la differenza fra domanda e ricerca di lavoro sembra piuttosto indicare una discrepanza fra le competenze richieste dalle imprese e quelle maturate dai disoccupati; o una distanza geografica eccessiva tra chi cerca e chi offre lavoro.
Una scarsità strutturale
La “scarsità” di lavoratori sembra strutturale e rischia di aggravare l’impatto della politica della Fed sulla disoccupazione. L’invecchiamento della popolazione ha ridotto il tasso di partecipazione alla forza lavoro, sceso in venti anni dal picco del 67 al 62 attuale, con il rapporto tra pensionati e popolazione aumentato dal 15,5 al 19,5; a cui si aggiunge il crollo dell’immigrazione, specie con elevate qualifiche, da oltre un milione di individui l’anno a circa 200mila nel 2021.
Entrambi i fenomeni fanno sì che la pressione sui salari tenda a restare elevata anche a fronte di un calo della domanda aggregata, oltre ad aumentare il tasso di disoccupazione stimato per raggiungere l’obiettivo di inflazione del due per cento. La stima oscilla tra il 6,5 e il 7 per cento (era 3,7 in agosto) ovvero tra i cinque e i sei milioni di disoccupati in più: un costo politicamente e socialmente difficile da sostenere.
Lo scenario più che probabile, dunque, è che la stretta della Fed si fermi prima, con un’inflazione stabilizzata al 3-3,5 per cento. La conseguenza sarebbe un rallentamento della crescita potenziale perché l’inflazione causa una dislocazione delle risorse: avvantaggia i debitori, aumenta le imposte e distorce gli utili delle imprese perché sistemi tributari e contabili non sono indicizzati, oltre a penalizzare pensionati e percettori di redditi fissi in termini monetari.
Una recessione quasi certa
Il secondo fantasma è la recessione nell’Eurozona. La crisi energetica senza soluzioni in vista, il rischio di razionamento delle forniture di gas, l’erosione del potere di acquisto dei consumatori, il prevedibile rallentamento dell’economia americana (primo mercato dell’export europeo), e la crisi della locomotiva cinese, aumentano la probabilità di una recessione. Una probabilità che diventa quasi certezza dopo la decisione della Bce di aumentare i suoi tassi di riferimento dello 0,75 per cento. Lo zero non era un livello di equilibrio per i tassi; che la Bce li dovesse aumentare è pacifico, sarebbe stato preferibile un approccio graduale, basato sull’andamento dei dati nei prossimi mesi, visto che la Bce, per sua stessa ammissione, non ha più un modello previsivo affidabile. Invece, segue la strategia della Fed, con un aumento da 0,75 che aveva escluso solo qualche mese fa. Nel comunicato, dichiara che ci potrebbero essere altri aumenti in quanto l’obiettivo del due per cento, come per la Fed, è incondizionato. Ciò nonostante, la Bce non prevede recessioni e stima una crescita dello 0,9 per cento nel 2023, pur prevedendo l’inflazione al 5,5 per l’anno prossimo e al 2,3 nel 2024.
A parte l’incongruenza delle stime, che sembrano attenuare i costi della recessione che una lotta all’inflazione incondizionata rischia di provocare, non aiuta il fatto che la Bce non fornisca alcuna spiegazione convincente per questa decisione. L’economia europea è in una situazione molto diversa da quella americana. In Europa, il caro energia è uno shock negativo; negli Stati Uniti, primo produttore di gas e petrolio, è positivo. Negli Stati Uniti il problema è la crescita salariale e la piena occupazione che l’alimenta; da noi, per stessa ammissione della Bce, c’è moderazione salariale e risorse inutilizzate. La Bce pure dichiara che le disfunzioni nelle filiere produttive, causa di tensioni sui prezzi, si stanno risolvendo, e che ci sono già chiari segni di rallentamento. La politica monetaria non può nulla contro il caro energia. Né la Banca centrale spiega quanta parte della inflazione “core” (ovvero escludendo energia e beni alimentari) sia dovuta indirettamente al costo di materie prime ed energia (se il costo del vetro aumenta perché aumenta il gas necessario a produrlo, anche vino e birra aumenteranno perché le bottiglie costano di più).
L’unica giustificazione per la svolta della Bce sarebbe arrestare la caduta dell’euro per frenare l’inflazione importata. Ma non lo può dire, perché il suo statuto le assegna la stabilità dei prezzi come unico obiettivo. Che poi riesca a invertire il trend del deprezzamento della moneta unica è da dimostrare: rischio di recessione, crisi energetica e del debito pubblico pesano forse più dei tassi.
Temo che ormai l’obiettivo del due per cento sia diventato fine a sé stesso: bisogna dimostrare di essere determinati a raggiungerlo anche se non si sa come farlo. Ma di fronte a una recessione credo che anche la Bce potrebbe decidere di abbandonare la politica restrittiva con un’inflazione stabilizzata a un livello superiore al due per cento. Quanto allo scudo anti frammentazione (il Tpi) per il debito pubblico, ancora nessun dettaglio su come funzionerà o che cosa lo attiverà: un’incertezza che in momenti di crisi diventa un invito per la speculazione.
Il rallentamento cinese
Il terzo fantasma è la crescita cinese. Negli ultimi vent’anni è stata la locomotiva e la manifattura a basso costo del mondo, una delle principali ragioni del lungo periodo di crescita del commercio internazionale e stabilità globale dei prezzi che abbiamo vissuto. Tutto questo sembra finito. La politica della “common prosperity” di Xi Jinping ha segnato la supremazia del partito sul capitale privato, frenando lo sviluppo delle imprese più dinamiche, con una ricaduta occupazionale sui giovani più formati e competenti. I ripetuti lockdown imposti dalla politica zero Covid, peraltro fallimentare, hanno compresso la domanda di consumi e aumentato il risparmio precauzionale. Il rapido invecchiamento della popolazione crea una domanda crescente di welfare. E ci vorranno anni per smaltire la crisi immobiliare, con pesanti ricadute sulla ricchezza delle famiglie e sui bilanci dei creditori, e il rischio latente di crisi finanziaria. Il ruolo trainante della Cina verrà gradualmente meno, con un conseguente cambiamento dei flussi del commercio internazionale e dei movimenti di capitale. Tre spettri che sono di cattivo auspicio per il 2023.
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