Non c’è ancora un accordo tra Ue e Stati Uniti sulla “Global minimum tax”. La nuova tassa sulle grandi imprese frutterà solo un quarto dei 2 miliardi di euro annunciati dal governo lo scorso anno
Eliminato con un tratto di penna il redditometro incautamente riesumato dal viceministro Maurizio Leo, dal palco del Festival dell’Economia di Trento, Giorgia Meloni ha ribadito la sua ricetta per un fisco giusto. Un fisco, parole sue, che non si accanisce sul cittadino, per concentrarsi sulla grande evasione, a cominciare da quella delle multinazionali. Insomma, niente pizzo di Stato (per usare lo slang meloniano) e mano pesante sulle imprese extralarge che nascondono i profitti lontano, negli anfratti offshore sparsi per il pianeta.
Anche la caccia ai furboni delle tasse, quelli dall’evasione milionaria, resta però tutt’altro che facile. E infatti, giusto qualche ora prima dell’intervento trentino di Meloni, è toccato a Giancarlo Giorgetti fare pubblica ammissione che non siamo messi benissimo neppure sul fronte privilegiato dalla presidente del Consiglio, quello della lotta agli evasori con il marchio delle multinazionali.
«La scadenza di giugno si sta avvicinando e mi sembra improbabile che si raggiunga un’intesa sul primo pilastro della Global minimum tax», ha detto il ministro dell’Economia parlando da Stresa, sulla riva piemontese del lago Maggiore, dove si sta svolgendo la riunione del G7 finanziario. Giorgetti aveva appena terminato un incontro a tu per tu con la segretaria al Tesoro americana, Janet Yellen.
Proprio il governo americano ha finora ostacolato l’applicazione dell’accordo raggiunto in sede Ocse per la tassazione globale delle multinazionali sulla base del principio che l’imposta venga applicata nei Paesi dove si trovano i consumatori e dove, quindi, i profitti vengono generati. L’accordo andrebbe a colpire, per fare qualche esempio, i giganti dell’economia digitale come Alphabet (Google), Meta (Facebook) o Amazon che hanno fin qui avuto buon gioco a spostare il reddito d’impresa in Stati dal fisco leggero. Anche India e Cina negli anni scorsi hanno remato contro l’intesa, e quindi Giorgetti prevede che la scadenza di giugno passerà senza che la prima parte del trattato sulla Global minimum tax diventi legge nelle principali economie del mondo.
Previsioni sballate
Discorso diverso, invece, è quello che riguarda il secondo pilastro dell’accordo internazionale, che in Italia è già diventato legge a partire dall’inizio di quest’anno con un decreto attuativo di una riforma fiscale che Leo ha più volte definito «storica».
In sintesi, questo pacchetto di norme, approvate in attuazione di una direttiva dell’Unione europea, introduce un prelievo minimo del 15 per cento per le multinazionali con un giro d’affari annuale superiore a 750 milioni. Partita chiusa, allora? Grazie a questa legge l’Italia è finalmente riuscita a neutralizzare i giochi di prestigio delle grandi aziende che sfuggono alle tasse grazie al turismo fiscale?
La risposta è negativa, almeno a giudicare dai numeri pubblicati nei mesi scorsi in un dossier del servizio studi della Camera dedicato al provvedimento in vigore dal primo gennaio. Il documento formula tra l’altro una previsione di gettito di questa nuova imposta molto inferiore rispetto a quanto era stato accreditato dal governo negli ultimi mesi del 2023, quando si discuteva della manovra finanziaria. «Dalla nuova tassa arriveranno tra i 2 e i 3 miliardi», era il mantra dell’esecutivo, una somma che nei piani governativi sarebbe andata tra l’altro a finanziare gli sgravi a favore dei redditi più bassi.
Scappatoie
Alla prova dei fatti, però, queste cifre rischiano di rivelarsi parecchio esagerate. Secondo il dossier della Camera, l’imposta frutterà all’erario circa 380 milioni nel 2025, quando il prelievo sarà applicato per la prima volta, per poi aumentare di poco negli anni successivi, senza mai superare quota 500 milioni.
Insomma, se sul primo pilastro della Global minimum tax l’accordo appare ancora lontano, per quanto riguarda il secondo il fisco nostrano dovrà accontentarsi di pochi spiccioli. Per fare un confronto, nel 2023 lo Stato ha incassato circa 53 miliardi grazie all’Ires, l’imposta sul reddito delle società.
Questo risultato di molto inferiore alle attese si spiega anche con le numerose eccezioni previste dalla nuova norma, che comunque, a detta degli esperti, risulta anche di complicata applicazione. Il principio è semplice. Prendiamo l’esempio della società capogruppo di una multinazionale con sede in Italia che controlla una filiale con sede in un paese con un’aliquota inferiore al 15 per cento, poniamo il 10 per cento. Ebbene, in questo caso, la società italiana dovrà pagare nel nostro paese un’imposta integrativa del 5 per cento, pari alla differenza tra le due aliquote.
In questo modo verrebbe quindi scoraggiato il trasferimento dei profitti verso giurisdizioni che garantiscono un trattamento fiscale di favore. La nuova legge però prevede, come detto, molte eccezioni, che fatalmente si trasformano in altrettante scappatoie per le aziende. Un’altra incognita riguarda i criteri con cui vengono quantificati gli utili societari, criteri che possono variare da Stato a Stato. Inoltre, manca ancora un accordo davvero globale, cioè esteso anche a grandi economie come Stati Uniti e Cina, che stabilisca in che modo verranno determinati i redditi prodotti in ciascun paese dalle multinazionali.
Facile prevedere, quindi, che la Global minimum tax avrà vita difficile anche per la parte che è già stata sottoscritta. Il rischio concreto, quindi, è che, in mancanza di un intervento legislativo davvero efficace, tocchi ancora alla magistratura mettere un freno alle manovre delle multinazionali, come è successo negli anni scorsi, su iniziativa della procura di Milano, per grandi gruppi come Apple, Google, Kering e altri ancora.
Tutti hanno restituito al fisco centinaia di milioni per evitare sanzioni ancora più pesanti. È il fisco modello Meloni, ma applicato dai pm.
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