- La proposta di riforma delle regole europee presentata dalla Commissione europea è migliorativa rispetto al Patto di (non) stabilità e (non) crescita. Tuttavia, non garantisce che l’investimento pubblico sia adeguatamente protetto
- Gli investimenti pubblici sono in calo ovunque fin dagli anni Ottanta, un calo accelerato con l’austerità degli anni Duemila Dieci. Il deficit d’investimento italiano tra il 2008 e il 2018 è stimato in 200 miliardi.
- Le politiche nazionali non potranno colmare questo deficit e far fronte ai colossali bisogni della transizione. Potremo già ritenerci fortunati se la proposta della Commissione sopravviverà all’attacco dei falchi. Diventa quindi non più rinviabile l’apertura di un dibattito sulla creazione di un’Agenzia europea per l’investimento pubblico, che finanzi e gestisca progetti d’investimento transnazionali
In queste settimane continua a tenere banco, in Europa, la riforma del Patto di stabilità e crescita, la norma che disegna il quadro in cui si devono muovere le politiche di bilancio nazionali. Su queste colonne ci siamo occupati a più riprese del patto, sottolineandone i molti punti critici che in passato hanno fatto sì che non garantisse né stabilità delle finanze pubbliche né crescita dell’economia.
È quindi una buona notizia il fatto che l’Europa si appresti a mandarlo in soffitta e a sostituirlo con un nuovo quadro normativo. L’ultimo Diario europeo, il 23 aprile scorso, rimarcava come la proposta di revisione del patto presentata dalla Commissione europea rappresenti un passo in avanti rispetto all’esistente, ma che rimane insufficiente sia per l’ancora eccessiva enfasi sulla riduzione del debito sia, e soprattutto, perché l’investimento pubblico non è sufficientemente protetto.
In un articolo al vetriolo apparso nei giorni scorsi sul Manifesto, Pierluigi Ciocca notava l’assurdità di regole che non distinguono tra la spesa corrente e quella per investimenti.
Il capitale sociale
Con la collega Floriana Cerniglia, dell’Università Cattolica, curiamo da qualche anno un rapporto annuale sull’investimento pubblico in Europa che coinvolge decine di ricercatori europei. Volume dopo volume, il messaggio che esce da questa serie è che nei paesi Ocse l’investimento pubblico è stato sacrificato sull’altare della disciplina di bilancio fin dagli anni Ottanta del secolo scorso. In Europa la tendenza al calo è particolarmente marcata e ha ulteriormente accelerato con i programmi di austerità degli anni Duemila e dieci. Il risultato è una carenza cronica di capitale pubblico, sia tangibile sia intangibile (il capitale sociale) che oggi pone una seria ipoteca sulle capacità di crescita di tutti i paesi europei, anche quelli apparentemente più in salute.
A titolo di esempio, i colleghi tedeschi che hanno lavorato ai capitoli sulla Germania hanno stimato in circa 45 miliardi annui l’ammontare necessario nel prossimo decennio per colmare il ritardo infrastrutturale tedesco, senza contare i bisogni di investimento aggiuntivi resi necessari dall’invecchiamento della popolazione e soprattutto dalla transizione ecologica e digitale.
L’Italia non fa eccezione: la stima che Cerniglia e i suoi coautori riportano è che tra il 2008 e il 2018 si sono persi per strada circa 2mils miliardi rispetto allo scenario in cui l’investimento pubblico avesse continuato ai ritmi (non eccelsi) del periodo precedente. La cifra fa riflettere: l’intera allocazione del Pnrr italiano (191 miliardi), che dovrebbe proiettarci nella transizione ecologica e digitale, non riuscirà nemmeno a colmare il divario che si è aperto negli ultimi dieci anni.
Guardando avanti, i numeri si fanno ancora più impressionanti. La Commissione europea ha stimato che, per riuscire a raggiungere l’obiettivo di tagliare le emissioni del 55 per cento prima della fine del decennio, come stipulato dal Green Deal, servirebbero all’Ue 520 miliardi di investimenti aggiuntivi ogni anno.
Anche se secondo la Commissione una parte significativa di questi investimenti dovrebbero venire dal settore privato, la cifra dà la misura dello sforzo colossale che ci attende.
Un think tank inglese, la New Economics Foundation (Nef), ha preso la cifra data dalla Commissione come base per simulazioni nelle quali ha anche considerato i bisogni legati all’investimento sociale (istruzione, sanità, ecc.) e alla transizione digitale. Queste simulazioni portano, in un rapporto anch’esso pubblicato nei giorni scorsi, a stimare che solo nove paesi europei (tra cui non figura ovviamente l’Italia, ma neanche la Germania né la Francia) avrebbero, rispettando le regole esistenti o anche quelle in funzione in caso la proposta di riforma della Commissione divenisse realtà, i margini di manovra per attuare investimenti così ingenti.
Le simulazioni del Nef si basano su molte ipotesi, tra cui alcune discutibili. Ma il quadro complessivo che disegnano è abbastanza netto, evidenziando un’incompatibilità di fondo tra gli ingenti bisogni di investimento dei prossimi anni e un sistema di norme europee che, anche nella versione riformata, rimangono troppo orientate verso gli obiettivi di riduzione del debito.
La posizione intransigente del governo tedesco, che ha voluto ribadire con il suo ministro liberale Lindner che la riduzione del debito deve essere l’obiettivo principale per i prossimi anni, ha spinto un economista di solito prudente e moderato come Olivier Blanchard, ex capo economista del Fmi, a chiedersi retoricamente se sia preferibile riuscire a preservare la terra con un debito un po’ più alto o andare verso la catastrofe climatica con le finanze pubbliche in ordine.
Investimenti europei
Molti, tra cui chi scrive, hanno per anni invocato una riforma delle regole europee che consentisse ai governi di investire al di fuori dei vincoli di bilancio, una “regola d’oro”. Una regola del genere consentirebbe di finanziare la transizione ecologica preservando la stabilità delle finanze pubbliche. Nei mesi scorsi è brevemente sembrato che una proposta in tal senso potesse avere una qualche possibilità di essere discussa. Oggi il clima è cambiato, e potremo ritenerci fortunati se la proposta della Commissione non sarà stravolta in senso ancora più restrittivo dal negoziato con i paesi membri.
Nei prossimi anni occorrerà quindi rassegnarsi a un investimento pubblico nazionale cronicamente insufficiente. Che fare allora? Se non si vuole fallire nell’obiettivo di transizione ecologica rimane una sola strada: lavorare alla creazione in tempi rapidi di un’Agenzia europea per gli investimenti in grado non solo di finanziare (come nella proposta di Fondo sovrano per la politica industriale, insabbiata nelle secche di Bruxelles) ma anche di progettare e attuare progetti di investimento genuinamente europei.
La governance di tale agenzia dovrebbe essere progettata con molta attenzione: la politica di bilancio ha una dimensione intrinsecamente politica che richiede la possibilità per gli elettori di chieder conto delle scelte compiute. Questa responsabilità nei confronti dell'elettorato è a carico dei governi nazionali, che dovrebbero quindi essere coinvolti nelle scelte in termini di investimenti pubblici europei.
Una qualche forma di controllo da parte del parlamento e del consiglio nel determinare (o almeno convalidare) i progetti di investimento renderebbe il lavoro dell’Agenzia europea per gli investimenti certamente più macchinoso. Ma ciò sembra inevitabile per garantire la legittimità democratica dei programmi di spesa (e del loro finanziamento) a livello europeo.
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