Il governo ha ottenuto la delega a riformare il sistema fiscale. Vuole razionalizzarlo e semplificarlo, operando in modo organico su tutte le imposte, oltre a rendere più efficiente l’attività di accertamento e il contenzioso. Intenti lodevoli, ma manca una definizione dei principi ispiratori della riforma, che ha obiettivi così generici da rasentare l’ovvietà (e a volte in contrasto con le delega stessa), e non spiega come intenda raggiungerli.

Risultato: un insieme di enunciazioni generiche, istanze (a volte sacrosante) emerse dalla prassi dell’attività di commercialisti e fiscalisti (il cui peso è predominante tra chi lavorerà alla riforma), e ammiccamenti agli interessi della base elettorale dei partiti di governo.

Servirebbe invece maggiore chiarezza sui principi della riforma, per avere maggiore trasparenza sui suoi obiettivi e per valutarne la coerenza. Per esempio, mi sarei aspettato che si chiarisse quale debba essere il peso ottimale delle imposte dirette rispetto alle indirette, quale debba essere la tassazione degli immobili o l’imposizione per il finanziamento degli enti locali.

E poi la struttura della tassazione effettiva dei vari beni di consumo, se sia meglio tassare il reddito quando è prodotto o consumato, se e come perseguire la pariteticità dei redditi di diversa natura, o il ruolo che la tassazione dovrebbe avere nella redistribuzione del reddito rispetto agli altri strumenti.

Basta leggere principi e obiettivi enunciati all’art. 2: «Fermi restando i princìpi della progressività e dell’equità del sistema tributario, stimolare la crescita economica e la natalità attraverso l’aumento dell’efficienza della struttura dei tributi e la riduzione del carico fiscale, soprattutto al fine di sostenere le famiglie, in particolare quelle in cui sia presente una persona con disabilità, i giovani che non hanno compiuto il trentesimo anno di età, i lavoratori e le imprese».

Praticamente: meno tasse per tutti, per crescere di più e, alquanto peculiare per un sistema tributario, aumentare la natalità. Con quali risorse finanziare la riduzione generalizzata delle tasse non si sa. Più che i principi di una riforma, mi sembra un slogan elettorale. È una riforma che «parte dal basso», ovvero dalle istanze della pratica della gestione dei rapporti con il sistema tributario, che però vuole anche essere uno strumento per fare politica: col risultato che il contenuto è a volte in contraddizione con principi e obiettivi enunciati.

Per esempio, si vorrebbe perseguire il riordino di deduzioni, detrazioni, crediti di imposta, per il reddito delle persone fisiche, ovvero la giungla di agevolazioni ed esenzioni cresciuta a dismisura alla ricerca del consenso, che costa miliardi allo Stato e discrimina tra redditi uguali di diversi contribuenti, violando il principio di equità. Ma nella riforma il riordino deve tener conto di nucleo familiare, costi della crescita dei figli, disabili, tutela della casa, salute, previdenza complementare, istruzione, eccetera: praticamente, tutte le agevolazioni esistenti.

A cui pare se ne aggiungano di nuove, come l’inserimento al mercato del lavoro dei «giovani», le spese per la produzione del reddito dipendente, l’aliquota sostitutiva per gli straordinari e premi produttività, e via discorrendo. Oltre a piccole prebende come la cedolare secca per gli immobili non abitativi, sgravi per le plusvalenze da terreni edificabili e collezioni d’arte, o l’abolizione del super bollo per le auto con più di 185 kW.

Imprese

Altro obiettivo lodevole è l’allineamento del bilancio civilistico a quello fiscale in quanto i numerosi interventi legislativi hanno fatto si che l’utile di bilancio abbia poco a che fare con la base imponibile per la tassazione del reddito di impresa. Il «bilancio fiscale» è un costo elevato per le imprese, riduce la trasparenza e introduce una discriminazione in quanto il rendimento effettivo del capitale viene tassato in modo diverso tra aziende anche simili.

Eppure si prevedono nuove riduzioni di aliquota per investimenti qualificati e per nuove assunzioni, il potenziamento degli ammortamenti, oltre al lungo elenco di misure contenute all’art.9 (che tratta anche della tassazione delle imprese in crisi o insolventi) incluso la possibilità di «limitare le variazioni in aumento e in diminuzione da apportare alle risultanze del conto economico» se soggette a revisione dei conti o in possesso di una certificazione rilasciata da «professionisti qualificati».

Su due questioni rilevanti come il riordino delle compensazioni delle perdite e la deducibilità degli interessi passivi, il dl rinvia ai decreti. Questo divarica ulteriormente l’utile civilistico da quello fiscale, discriminando tra imprese (altra violazione del principio di equità) e riducendo la certezza del rendimento del capitale dopo le imposte: uno degli argomenti che scoraggiano gli investimenti esteri. D’altra parte questo è il governo che tassando gli «extra-profitti» del banche sulla base del solo margine di interesse, ha finito per tassare gli utili di ogni banca in modo diverso visto che gli interessi sono solo una delle componenti del reddito.

Il passare la patata bollente ai decreti attuativi, senza specificare cosa conterranno, riguarda molte questioni spinose, potenzialmente pregiudizievoli per il consenso. Si parla di razionalizzazione delle aliquote Iva, quantomai opportuna, ma si tace in che direzione andrà, e di graduale superamento dell’Irap, ma a uguale gettito per le Regioni, garantendo il finanziamento della sanità, con invarianza del carico fiscale e nessun aggravio per i redditi da lavoro e pensioni, forse sperando nella Divina Carità per finanziarlo.

Di Imu, valori catastali, e finanziamento degli enti locali, nessuna traccia. Sui Giochi si parla di certificazioni, tutela dei soggetti vulnerabili, formazione, controlli, contrasto all’illegalità: tutte cose che non competono a una riforma tributaria. Ma guai a toccare una grossa fonte di introiti per le casse dello Stato.

Sulle accise si enuncia una «rimodulazione per tener conto del diverso impatto ambientale»: insomma una molto condivisibile «carbon tax» che però non trova riscontri nella polemica estiva sul prezzo della benzina: forse i ministri non si parlano tra di loro. La sensazione è che si lanci un’altra volta la palla avanti, facendo mostra di buoni propositi.

Sistema frammentato

L’aspetto più criticabile riguarda l’accertamento (che in Italia è erratico), il contenzioso (lungo e costoso) e la mancanza di certezza del diritto. Tre le ragioni. Un sistema tributario troppo complesso e frammentato che incentiva il contribuente che lo può fare a sfruttare le aree grigie e le pieghe nel codice a proprio vantaggio; e l’Agenzia delle Entrate che di conseguenza tende a presumere l’elusione per arrivare a un compromesso e una transazione. Un uso inefficiente di banche dati, strumenti informatici, e intelligenza artificiale da parte dell’Agenzia, che dovrebbe invece sfruttare per dare basi certe all’accertamento.

E soprattutto la scarsa preparazione dei giudici tributari e la mancanza di corti specializzate per i casi complessi, con il risultato di pareri opposti da parte delle Commissioni Tributarie, pareri rovesciati ai gradi superiori di giudizio, e l’Agenzia delle Entrate che vince in media nel 50 per cento dei casi. Nella delega si menzionano più volte semplificazione e strumenti informatici, ma in modo generico, mentre della più fondamentale riforma della giustizia tributaria, nemmeno un cenno.

Invece si allarga la platea delle imprese che possono aderire all’adempimento collaborativo, un istituto oggi per le imprese con più di 1 miliardo di fatturato, per chiedere pareri preventivi all’Agenzia che evitano in futuro il contenzioso, e il Concordato Preventivo biennale per le piccole e medie imprese in cui di fatto impresa e Agenzia si accordano su un utile tassabile figurato, a prescindere da quello che sarà poi l’utile.

Oltre a una forte limitazione nell’azione di accertamento dei valori di bilancio (art.15.2.g). Sarà anche una soluzione pragmatica, ma assomiglia molto a una dichiarazione di bancarotta del nostro sistema del contenzioso, della giustizia tributaria e della certezza del diritto.

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