Finita la campagna elettorale, torna la realtà. Arcuri sta trattando con ArcelorMittal
I lavoratori chiedono garanzie. Per la riconversione servirebbero 30 mesi di stop
- Arcuri tratta con ArcelorMittal per l’assetto societario della nuova azienda
- Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha sgomberato il campo dall’ipotesi di una conversione all’idrogeno e ha detto che servono 3 miliardi
- Ma anche per la riconversione a gas servono, una volta avuti i fondi, 30 mesi di stop degli impianti produttivi, i lavoratori chiedono garanzie
«La storia dell’idrogeno esiste nei libri di fantasia, servono quantità enormi di gas per la riconversione dell’Ilva». Giuseppe Romano è il segretario generale della Fiom pugliese, ieri dopo quattro mesi dall’ultimo incontro, si è seduto al tavolo del ministero dello sviluppo economico assieme ai rappresentanti di Fim, Uilm e Usb per discutere del destino dell’ex Ilva.
Per ottenere la convocazione a Roma, i lavoratori hanno bloccato gli ingressi delle merci ai 15 milioni di metri quadrati della città fabbrica, chiedono garanzie per la mancanza di condizioni di sicurezza. La festa della campagna elettorale è finita, in Puglia è stato rieletto Michele Emiliano, la crisi del gigante siderurgico è sempre più grave: la realtà secondo le organizzazioni dei lavoratori deve riprendere il posto della fantasia.
A marzo il governo ha firmato con la multinazionale ArcelorMittal un nuovo accordo, secondo il quale lo stato con Invitalia – l'agenzia guidata da Domenico Arcuri che si occupa delle crisi industriali – dovrebbe entrare nella proprietà attraverso una nuova società. Entro la prossima settimana «prevediamo che si arrivi alla definizione dell'assetto societario», ha detto il ministro Stefano Patuanelli, durante il tavolo.
L’intesa è nata per trattenere una multinazionale che era pronta ad andarsene impugnando la modifica del contratto con cui il governo ha deciso di togliere lo scudo penale per gli amministratori, modificando l’intesa che invece i lavoratori avevano firmato. Oggi è prevista una penale di 500 milioni di euro in caso di recesso, poca cosa considerando che l’anno passato l’Ilva perdeva almeno due milioni di euro al giorno. Intanto su 8mila 200 lavoratori, più di 5mila sono in cassa integrazione.
«La situazione è pesantissima, sappiamo che non la risolviamo domani», dice Romano. «Se continuiamo così rischiamo di chiudere».
La manutenzione che non c’è
La città fabbrica dell’Ilva è un sistema integrato. La centrale elettrica funziona con i gas di scarico dell’altoforno e delle cokerie. I treni nastri, i tubifici, gli impianti di zincatura dell’acciaio, funzionano con la centrale elettrica. Se si fermano gli impianti a caldo si rischia di fermare tutto. La produzione è già ridotta, i turni sono passati da 21 a 15. Le squadre di rimpiazzo, quelle che devono sostituire gli altri lavoratori in caso di necessità, sono a casa, col risultato che si ricorre agli straordinari nonostante la cassa integrazione. «I lavoratori dell’indotto sono dimezzati e sui mille lavoratori addetti alla manutenzione, circa 600 sono in cassa integrazione», dice il segretario Fiom. Le bonifiche portate avanti dai lavoratori dell’Ilva in amministrazione straordinaria procedono a rilento, in compenso nelle ultime settimane si sono moltiplicati quelli che nel linguaggio della fabbrica si chiamano near miss, gli incidenti che non hanno avuto conseguenze: carichi pendenti che cadono dai carri ponte, rotoli di acciaio da due tonnellate che piombano a terra dalle funi, esplosioni nelle acciaierie.
Una realtà distante dalle promesse sull’Ilva verde e sicura. La riconversione all’idrogeno, sostenuta per mesi da esponenti di governo, citata dal vicepresidente della Commissione europea Franz Timmermans e rilanciata anche dal direttore di Enel Carlo Tamburi, si scontra con le conoscenze di chi si occupa da sempre di siderurgia, a partire da Carlo Mapelli, professore di ingegneria al Politecnico di Milano, l’esperto che ha ispirato il piano di decarbonizzazione dell’impianto di Taranto.
«La produzione a idrogeno», dice Mapelli, «è in via di sperimentazione in Svezia e Messico e attualmente non è sostenibile». La via oggi percorribile per la riconversione si basa ancora sul piano scritto dal professore nel 2014, quando ancora la gestione commissariale era affidata a Enrico Bondi, che fu osteggiato anche dai concorrenti di Ilva. Sei anni dopo siamo ancora al punto di partenza.
L’idea è utilizzare il preridotto, un semiprodotto del ferro che si ottiene trasformando il minerale del ferro attraverso l’utilizzo del gas naturale e che può essere usato nei forni elettrici come base per la produzione dell’acciaio. Per avere una tonnellata di acciaio servono 300 metri cubi di gas, per farne 5 milioni servono 1,5 miliardi di metri cubi di gas l’anno.
Dopo mesi a sentire che avremmo portato l’idrogeno a Taranto, solo il 15 settembre il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli ha fatto chiarezza: «L’idrogeno non è una prospettiva di decarbonizzazione».
«Le acciaierie elettriche hanno una emissione di anidride carbonica inferiore di due terzi e permettono l’abbattimento delle patologie cancerogene associate», dice Mapelli. Il professore pensa anche a un sistema di stoccaggio dell'anidride carbonica, a cui potrebbe collaborare anche Eni, coinvolta anche tramite la società ambientale Rewind a cui Mittal ha affidato le bonifiche. In tutto «servono 3 miliardi di euro per cui è indispensabile attingere ai fondi europei», ha detto Patuanelli al tavolo del Mise. Non è chiaro da dove dovrebbero arrivare le risorse, la bozza del ministero dello sviluppo economico cita il Just transition fund, il fondo europeo per la transizione verde. Il ministro dell’Ambiente Andrea Costa ha calcolato che secondo la bozza approvata dal Consiglio europeo per l’Italia verrebbero stanziati 700 milioni di euro da dividere tra Taranto e il Sulcis. Patuanelli ha spiegato che Arcuri e Caio (Invitalia) stanno portando avanti la trattativa, «ponendo come punti fermi la piena produzione alla fine del piano e la necessità di investimenti anche privati».
Ma il problema non sta tanto nel finanziamento, ma nel mantenere l’azienda sul mercato. «Per una conversione totale e immediata servono almeno 30 mesi di stop», dice lo stesso Mapelli, «c’è un problema pratico su come gestire la ristrutturazione, molto complicato dal punto di vista ingegneristico e commerciale».
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