- Molti giornalisti, commentatori e politologi vedono nei recenti cambiamenti politici in Cina «il ritorno al comunismo». "Trasferiscono” o attribuiscono alla Cina i propri pregiudizi. Il pregiudizio consiste in un’eccessiva attenzione ai mercati azionari come indicatori quasi unici della salute di un’economia.
- Se poi si guarda all’attuale partito guidato da Xi da una prospettiva leninista (cosa che Xi potrebbe non essere riluttante a fare), la stessa conclusione si rafforza. Il capitalismo cinese può essere visto come una “lunga Nep” (Nuova politica economica) in cui ai capitalisti si concede di avere le mani libere praticamente in tutte le aree dell’economia, ma i vertici dell’economia sono preservati per lo stato (e cioè sono controllati dal Partito comunista).
- Il percorso verso il cambiamento è attualmente bloccato. Il futuro rivelerà se lo stato cinese sarà preso o meno dai ricchi, e cioè se rimarrà autonomo nel suo processo decisionale.
Molti giornalisti, commentatori e politologi vedono nei recenti cambiamenti politici in Cina «il ritorno al comunismo». Segnalano, in particolare, una serie di misure il cui obiettivo era limitare i prestiti da parte delle società internet, vietare il tutoraggio a scopo di lucro e mettere a dura prova le società che producono giochi online (quest’ultime sono state paragonate, in modo significativo e minaccioso, a «spacciatori dell’oppio spirituale tra i giovani cinesi»). I commentatori occidentali sono sconvolti dall’apparente indifferenza del governo cinese nei confronti di ciò che tali misure potrebbero fare ai mercati azionari di Shanghai, Shenzhen e Hong Kong. (In effetti sono tutti in calo nell’ultimo mese).
La cosa è in netto contrasto con la preoccupazione, e persino il panico, del governo quando il mercato azionario cinese ha attraversato gravi turbolenze nell’estate del 2015.
I commentatori “trasferiscono” o attribuiscono alla Cina i propri pregiudizi ideologici. Il pregiudizio consiste in un’eccessiva attenzione ai mercati azionari come indicatori quasi unici della salute di un’economia. Questo ovviamente non sorprende in un paese, come gli Stati Uniti, in cui il 93 per cento delle attività finanziarie è detenuto dal dieci per cento della popolazione (come scrive Wolff in A Century of Wealth in America). Queste sono anche le persone più ricche e di conseguenza le cose che toccano loro – dato che controllano i media sia direttamente (come Bloomberg) che indirettamente, perché sono i principali acquirenti delle notizie – saranno riportate in modo più esteso di quelle che riguardano l’altro novanta per cento della popolazione.
Prospettive distorte
Tutto ciò fa acquisire al mercato azionario un’importanza ipertrofica rispetto a quella che è la sua rilevanza reale. Ci dà però un’ottima comprensione su chi controlla veramente la vita sociale ed economica di un paese.
Donald Trump è stato solo un esempio estremo dell’ossessione singolare (e del tutto ragionevole, dal punto di vista degli interessi finanziari) della classe dirigente per il mercato azionario. Trump ha spesso deciso le sue mosse di politica, non solo interna ma anche estera, in funzione del loro effetto sul mercato azionario. Qualcuno forse ricorda che l’unica ragione di Trump per non consentire ai pazienti infetti di sbarcare da una nave nelle acque al largo di Long Beach nel marzo 2020 era di non spaventare il mercato azionario. (Poco sapeva allora, e noi con lui, di quello che sarebbe successo poi).
Permettetemi di raccontare una storia personale che riassume l’importanza del mercato azionario per i ricchi. Nell’agosto del 1991 ero in vacanza a Martha’s Vineyard, l’isola giustamente nota come la dimora dei democratici più ricchi. (Il più recente ad avere comprato casa è Barack Obama).
La vacanza ha coinciso con il colpo di stato anti-Gorbačev a Mosca (19-22 agosto). Quindi tutti, in quella piccola enclave in cui mi trovavo, si sono precipitati a guardare i telegiornali la mattina (erano gli anni prima di internet e degli smartphone). A Mosca stavano succedendo cose assolutamente drammatiche, che avrebbero avuto conseguenze globali e storiche: i golpisti tenevano una conferenza stampa mal organizzata, l’esercito aveva sequestrato i principali edifici di Mosca, i manifestanti iniziavano a scendere nelle strade, Boris Eltsin si era impadronito del palazzo del parlamento russo, non era chiaro se Gorbačev fosse stato arrestato o meno... Era un guardare la storia accadere davanti ai propri occhi.
Ma dopo circa mezz’ora di diretta da Mosca, l’élite liberale ha deciso che era abbastanza e ha cambiato canale: si sono sintonizzati sulla Borsa di New York e guardavano molto attentamente gli sviluppi, probabilmente stavano calcolando mentalmente quanto bene (o male) gli eventi di Mosca avessero avuto effetto sul loro portafogli. Quelli tra noi più interessati al destino dell’Unione Sovietica, del comunismo e del mondo, che alle quotazioni delle azioni, erano in minoranza, e così abbiamo dovuto indovinare gli eventi di Mosca dalle oscillazioni delle azioni a New York.
Un approccio differente
La Cina vuole essere diversa. In una società di capitalismo politico, come ho sostenuto in Capitalism, Alone, lo stato cerca di mantenere la propria autonomia. Negli Stati Uniti lo stato in genere agisce come custode dell’interesse capitalista «gestendo gli affari comuni della borghesia». Nel capitalismo politico, però, lo stato non deve permettere di appropriarsi o di essere “contaminato” dall’interesse capitalista. In altre parole, l’interesse capitalista è uno degli interessi da tenere in considerazione, ma non l’unico, o forse nemmeno il principale. Questo approccio è coerente con la lunga tradizione cinese di stato che tiene a distanza gli interessi mercantili e capitalisti. Ho-fung Hung, ad esempio, descrive bene come la burocrazia Qing si sia schierata con i lavoratori nelle controversie sindacali, e non con i “padroni”, come avveniva comunemente nella Gran Bretagna del diciannovesimo secolo. Gli stessi argomenti li hanno sostenuti Giovanni Arrighi, Jacques Gernet, Kenneth Pomeranz e Martin Jacques.
Se poi si guarda all’attuale partito guidato da Xi da una prospettiva leninista (cosa che Xi potrebbe non essere riluttante a fare), la stessa conclusione si rafforza. Il capitalismo cinese può essere visto come una “lunga Nep” – che potrebbe durare un secolo o anche due – in cui ai capitalisti si concede di avere le mani libere praticamente in tutte le aree dell’economia, ma i vertici dell’economia sono preservati per lo stato (e cioè sono controllati dal Partito comunista) e il potere politico non è condiviso con nessuno, tanto meno con i capitalisti. Così lo stato mantiene la libertà di azione nei confronti del gruppo socialmente più potente (i capitalisti) e può ignorare le loro lamentele quando si tratta di un interesse sociale principale; come probabilmente è stato il caso dei tre esempi di repressione normativa e legale.
Il destino della borghesia
Può finire l’autonomia dello stato e sarà la borghesia a prendere il controllo dello stato cinese come ha fatto in occidente? È abbastanza possibile. La teoria della modernizzazione sostiene questa ipotesi. Credo ci siano tre modi in cui potrebbe accadere.
Il primo è che potrebbe esserci una rivoluzione della classe media o della borghesia. Occorre notare però che nessuna rivoluzione contro il regime comunista è mai riuscita. Quella che più si è avvicinata è stata la rivoluzione ungherese del 1956, ma è stata annientata dall’esterno, dall’esercito sovietico. Quindi questa possibilità, finché il partito-stato è unito, credo sia altamente improbabile.
La seconda possibilità è la “Gorbačevizzazione”. Significa che i vertici del partito si muovono verso la socialdemocrazia. Ideologicamente questo avrebbe molto senso visto che originariamente i comunisti erano parte della socialdemocrazia. Il divario ideologico tra i due, pertanto, non è molto ampio. La fine dei regimi comunisti nell’Europa dell’est e nell’Unione Sovietica è arrivata quando diversi partiti comunisti sono diventati socialdemocratici, sia ai vertici (come il Pcus) sia tra tutti i suoi membri. Quest’ultimo è stato il caso, nel 1988-88, per almeno i partiti comunisti ungherese, polacco e sloveno. Si avvicinarono al Partito comunista italiano, ideologicamente e politicamente.
La terza possibilità è il “Jiang Zeminism”, secondo cui il partito accetta sempre di più i capitalisti tra i suoi membri al vertice e riflette i loro interessi. In un recente articolo del British Journal of Sociology Li Yang, Filip Novokmet e io troviamo in effetti che, mentre la composizione dei membri del Pcc (alla fine del governo di Jiang Zemin) era più simile rispetto a prima a quella complessiva della popolazione urbana cinese, i membri del Pcc ai vertici (i più ricchi) erano sempre più diversi dagli altri membri e dalla restante popolazione. Ecco la nostra conclusione: «Mentre la struttura dei membri del Pcc nel periodo recente si avvicina meglio alla struttura della popolazione rispetto al 1988, i vertici del Pcc si stanno allontanando sempre più sia dalla struttura generale dei membri del Pcc sia da quella della popolazione urbana nel suo insieme».
L’“insinuarsi” dei ricchi nei ranghi più alti del partito è stato razionalizzato da Jiang Zemin nell’ideologia delle “tre rappresentanze”. Oggi non si sente tanto parlare delle “tre rappresentanze” (sembra che siano state sostituita dal pensiero di Xi Jinping) quindi quel percorso verso un cambiamento è attualmente bloccato. Il futuro rivelerà se lo stato cinese sarà preso o meno dai ricchi in uno di questi tre modi, e cioè se rimarrà autonomo nel suo processo decisionale.
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