La crisi causata dal Covid ha impresso una svolta alla politica economica europea, che sembrava aver creato le condizioni per una crescita duratura di cui l’Italia avrebbe beneficiato più di tutti. Con il Next generation Eu, i governi dell’area accettavano il principio della mutualizzazione delle risorse fiscali per creare la massa critica necessaria ad avviare un programma di investimenti teso ad aumentare la crescita potenziale.

E il Green deal, oltre alle motivazioni legate alla transizione ambientale, dava all’Europa l’occasione di acquisire una leadership economica nel mondo nella rivoluzione verde, dopo aver subito il dominio di Cina e Stati Uniti in quella tecnologica.

Di questo processo l’Italia era il principale beneficiario: aveva la possibilità di recuperare il deficit di investimenti infrastrutturali e in settori cruciali per la crescita del capitale umano, come sanità e istruzione, imposto dall’ingente indebitamento. E gli acquisti di titoli di stato della Bce ci avevano messo al riparo dagli attacchi speculativi e calmierato l’onere del debito.

Il passato che ritorna

Anche la crisi energetica, scatenata dalla guerra in Ucraina, è stata rapidamente assorbita dai paesi europei, Italia compresa, che hanno saputo diversificare le fonti energetiche: il prezzo del gas (Dutch TTF) è oggi poco sopra il livello medio del quinquennio 2014-2019; e quello del greggio Brent inferiore del 15 per cento.

Così l’Italia, storicamente maglia nera d’Europa, era l’anno scorso in testa alla classifica per crescita del Pil, con il +3,8 per cento, staccando la Francia (2,5) e la Germania (1,9). Idem nel primo trimestre 2023, con un +0,6 contro lo 0,1 francese e il dato negativo della Germania, ufficialmente in recessione.

In pochi mesi l’umore è radicalmente cambiato. L’Italia è tornata maglia nera nel secondo trimestre, con il Pil in discesa dello 0,3 sul trimestre precedente, mentre la Francia metteva a segno un +0,5 e finiva la crescita negativa tedesca.

Il Green deal pare diventato un costo che non possiamo permetterci, mentre l’opportunità è stata colta dalle imprese cinesi che sempre più dominano tutti i settori della transizione ambientale (pannelli solari, batterie, terre rare, lavorazione chimica dei minerali, pale eoliche, e presto auto elettriche); mentre le imprese europee investono in America per sfruttare gli incentivi messi in campo dall’amministrazione Biden.

La mutualizzazione del debito in Europa non è più una realistica opzione, e non è stata presa in considerazione né per affrontare in modo unitario la crisi energetica, né per competere con gli incentivi americani per la transizione ambientale.

A questo, i nostri ritardi e polemiche sul Pnrr e il ritorno dei nazionalismi hanno contribuito non poco. L’inflazione ha costretto la Bce ad aumentare i tassi e presto chiuderà il rubinetto degli acquisto dei titoli; ciononostante si affievoliscono le aspettative che un rapido ritorno dell’inflazione al 2 per cento permetta una riduzione dei tassi.

Così, anche i rendimenti sui titoli di stato a lungo termine tedeschi, più sensibili alle dinamiche di inflazione e finanza pubblica, sono tornati a livelli che non si vedevano dal luglio 2011, e sono in crescita; trascinando al rialzo il costo del debito di tutti i paesi. Una dinamica che comporterà a lungo un maggior onere per le nostre finanze pubbliche.

Un cambiamento così repentino non può essere spiegato unicamente dall’aumento dei tassi della Bce, anche perché negli Stati Uniti ci si attende ormai un soft landing nonostante una politica monetaria più restrittiva (il tasso della Fed è al 5,5 per cento contro il 3,75 della Bce) pur con un’inflazione inferiore.

Il cambiamento di scenario può essere meglio compreso analizzando le differenze strutturali con cui le diverse economie sono arrivate ad affrontare la crisi da Covid, a loro volta il risultato di come era stata affrontata la precedente crisi del 2009, e di come le politiche adottate per fronteggiare la pandemia abbiano approfondito queste differenze.

Per comprenderlo, ho calcolato il contributo alla crescita a prezzi costanti delle varie componenti della domanda per gli Stati Uniti e le prime tre economie europee, Germania, Francia e Italia, dalla crisi del 2009 alla vigilia della pandemia nel 2019. Il contributo di una componente misura di quanto sarebbe aumentato il Pil se questa fosse stata l’unica fonte di crescita.

Usa al traino dei consumi

Nonostante la crisi del 2009 sia stata innescata dai mutui sub-prime, gli Usa sono il paese che è cresciuto di più nel periodo: 25 per cento (1,9 medio annuo) contro il 21 tedesco (1,8 medio), 15 francese (1,2 medio) e soltanto 2,7 italiano (0,2 medio).

Ma le differenze importanti sono nella struttura della crescita: gli Usa hanno usato la politica fiscale per sostenere i consumi privati delle famiglie, che hanno contribuito per 2/3 della crescita totale (16 per cento sul 25 totale), con il resto contribuito dagli investimenti fissi; mentre nessun contributo è venuto dai consumi pubblici.

Ben diversa la situazione in Francia e Germania dove solo il 40 per cento della crescita è venuta dai consumi privati, mentre un forte contributo diretto è venuto dalla spesa pubblica; quello degli investimenti (pubblici e privati) è più o meno uguale in tutti e tre i paesi.

La spesa pubblica

La prima grande differenza è dunque il ruolo dello Stato: indiretto a favore del consumatore negli Usa; diretto in Francia e Germania. Stessa differenza col Covid: gli Usa hanno usato la finanza pubblica per dare il sostegno monetario direttamente ai cittadini; l’Europa ha privilegiato il sostegno indiretto, attraverso gli aiuti alle imprese a sostegno dell’occupazione. Così oggi in Europa i consumi ristagnano mentre sono le famiglie ha portare fuori gli Usa dal rischio recessione.

La seconda differenza strutturale è il contributo della domanda estera: negativo negli Usa, positivo in Germania (nullo in Francia). In altre parole mentre gli Usa hanno usato le importazioni per soddisfare i consumi finanziandole con il risparmio del resto del mondo, la Germania ha invece sacrificato i consumi privati a favore delle esportazioni e della propria industria. La Francia, una via di mezzo.

L’Italia è arrivata al Covid nei peggiori dei modi, sacrificando, come la Germania, i consumi per favorire le esportazioni e l’industria (unica fonte di crescita nel periodo), ma senza avere le risorse pubbliche tedesche per sostenere la domanda per via del vincolo del debito.

Col Covid, l’inefficiente utilizzo delle risorse del Pnrr e la preferenza per il sostegno alle imprese invece che ai consumi privati, hanno rafforzato queste debolezze strutturali.

Il mondo che verrà

Lo scenario futuro sarà definito da tre elementi. Il primo è il rallentamento strutturale della Cina che, unitamente ai rischi geopolitici, ha invertito la tendenza alla globalizzazione facendo venir meno uno dei principali mercati dell’export europeo; che anzi è diventata un concorrente temibile in tanti settori (ambiente, logistica, macchinari, auto), mettendo così in crisi il modello tedesco, con danni collaterali per l’Italia.

Il secondo è la transizione ambientale: un’occasione che l’Europa sta perdendo a vantaggio di Stati Uniti e Cina. La terza è il recente aumento dei tassi a lungo termine, in Europa come negli Usa, che aumenterà stabilmente l’onere per interessi sul debito pubblico ovunque. Da una parte si ritiene che l’inflazione si assesterà a lungo sopra al 2 per cento, anche perchè verrà meno il contributo alla stabilità dei prezzi fin qui garantito dalla Cina e dalla globalizzazione. Dall’altra green deal, spese militari e sostegno ai redditi avranno un maggiore impatto sulle finanze pubbliche; ma poiché sarà politicamente arduo ridurre il welfare o aumentare delle imposte, il sostegno dello Stato all’economia fin qui assicurato dai paesi occidentali è difficilmente sostenibile. Questo il senso del declassamento del debito americano da parte di Fitch.

In questo scenario le debolezze strutturali che hanno in passato penalizzato l’Italia, torneranno a pregiudicare il nostro futuro; che il Pnrr la ha solo mascherate per un po’, illudendoci.

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