Mentre eravamo concentrati sui fatti di Capitol Hill, all’indomani del tentativo di colpo di stato, è possibile che abbiamo ricevuto un messaggio da WhatsApp, in cui ci è stato chiesto di accettare i nuovi termini di servizio. Probabilmente, come facciamo spesso, abbiamo cliccato “sì” senza pensarci troppo.

WhatsApp appartiene a Facebook. Nell’ottobre del 2019 il suo amministratore delegato e fondatore, Mark Zuckerberg, ha tenuto un discorso all’Università di Georgetown. Il tema era la libertà di parola su Facebook, una piattaforma globale che raggiunge tre miliardi di persone. Quando gli è stato chiesto degli annunci politici, Zuckerberg ha detto che Facebook li avrebbe comunque accettati, sostenendo in sintesi che la luce del sole è in fondo il miglior disinfettante per le bugie. «Non verifichiamo gli annunci politici e non lo facciamo per aiutare i politici, ma perché pensiamo che le persone siano in grado di vedere personalmente ciò che i politici dicono», ha affermato Zuckerberg.

In quel discorso di quarantacinque minuti Zuckerberg ha omesso un dettaglio critico. Non ha mai parlato del modello di business della sua azienda: convincere gli utenti ad accettare termini di servizio vaghi, consegnare i propri dati e quindi utilizzarli per vendere annunci pubblicitari. Solo di sfuggita, parlando di annunci politici a pagamento, Zuckerberg ha aggiunto: «Dal punto di vista del business, la controversia non vale certo la piccolissima fetta commerciale che costituiscono».

Sappiamo tutti che Facebook guadagna dalla pubblicità. Solo nel 2020 i ricavi pubblicitari sono stati pari a 80 miliardi di dollari. La pubblicità è mirata al singolo individuo in base alla ricchezza dei dati che Facebook raccoglie sui propri utenti attraverso le tante fonti diverse. Gli utenti trascorrono una considerevole quantità di tempo nell’ecosistema di Facebook (che include anche Instagram e WhatsApp): circa un’ora al giorno su Facebook, un po’ meno su Instagram e circa 30 minuti su WhatsApp.

Il sistema di traino degli annunci politici 

Questo mi porta a evidenziare tre punti fondamentali che non condivido delle affermazioni di Zuckerberg nel discorso di Georgetown. In primo luogo, obietto l’affermazione che gli annunci politici a pagamento rappresentino solo una «piccola parte» dell’attività di Facebook. I conti di Facebook sono opachi, ma i suoi stessi dati raccontano una storia leggermente diversa: tra il maggio 2018 e il settembre 2020 Facebook ha guadagnato 2,2 miliardi di dollari direttamente dalla pubblicità politica.

In secondo luogo, e cosa più importante rispetto a questo effetto diretto, Facebook è una piattaforma che crea il coinvolgimento dei consumatori (alcuni la chiamerebbero dipendenza). Vuole che tu sia collegato alle sue proprietà il più a lungo possibile per poter vedere quello che scrivi, che ti piace, che leggi e pubblichi, da dove lo fai e quando lo fai. La politica è un motore essenziale del coinvolgimento degli utenti.

Quindi, l’effetto indiretto, o di traino, delle notizie politiche è ciò che conta davvero: è facile immaginare persone che discutono incessantemente di politica e a cui poi compare la pubblicità di un prodotto che non ha nulla a che fare con la politica. Ad un certo punto l’algoritmo decide che probabilmente sei nello stato emotivo perfetto per visualizzare la pubblicità di quel prodotto.

Terzo. Permettetemi di mettere in discussione l’idea di esporre la disinformazione politica alla luce del sole, perché le persone possano vedere da sé se le notizie sono false o meno. Questo potrebbe essere vero se davvero le persone fossero esposte a più fonti di informazione. Il problema però è che la natura di internet come fonte di informazioni, con una struttura aperta e decentralizzata come nei primi tempi, dove le persone possono cercare e giudicare da sé, è probabilmente scomparsa da anni.

È vero che alcuni di noi potrebbero ancora farlo, ed è fantastico, ma la maggior parte delle persone non si comporta cosi’. Rimangono nella loro bolla e non sono in grado di uscirne. Pensateci: proprio per le raccomandazioni iper-mirate fornite dall’algoritmo, è impossibile che io sappia cosa viene mostrato a un altro. Perché io non sono l’altro.

Le accuse di frode elettorale di Trump vanno inquadrate in questo contesto. L’enorme velocità e la capillarità delle piattaforme digitali e dei loro algoritmi, la loro resilienza all’etichettatura e alle altre fonti, è la risposta perfetta all’argomento della luce del sole. E i soldi continuano a scorrere: nei giorni precedenti l’inaugurazione, Facebook mostrava annunci di equipaggiamento militare accanto ai post dell’insurrezione. Anche l’algoritmo di YouTube (YouTube è di proprietà di Google ed è anch’esso finanziato dalla pubblicità) fa tutto il possibile, in base alle caratteristiche dell’individuo di cui sa tutto o quasi, per mantenere l’utente “agganciato”, fino a quando non arriva il momento giusto per mostrare gli annunci pubblicitari, e non c’è praticamente modo che un’altra persona che non abbia le stesse caratteristiche possa controllare il suggerimento dell’algoritmo. Il servizio pubblicitario di Google, DoubleClick, ha pubblicato annunci su oltre l’ottanta per cento dei siti di disinformazione elettorale durante le elezioni americane.

L’iper-targeting consente agli attori interessati (dagli inserzionisti ai politici) di inviare messaggi mirati in modo estremamente preciso a un numero molto ridotto di individui. Ad esempio, un politico può essere rappresentarisidiversamente di fronte a bersagli differenti e questi bersagli non lo saprebbero. Questo rende anche molto più difficile smascherare la menzogna. Se si consente di mostrare un determinato annuncio solo a poche persone, e poi decine di migliaia di annunci vengono pubblicati, diventa estremamente complesso per un avversario politico e la stampa denunciare il fatto.

Il trionfo di un modello di business

In effetti, nonostante tutte le loro evidenti differenze, Facebook e Google sono molto vicini in termini di strategie. Facebook e Google ci accalappiano con offerte “gratuite”, ci profilano, raccolgono dettagli intimi su di noi e vendono l’accesso alla nostra attenzione agli inserzionisti. Potresti rifiutare di sottoscrivere i loro termini di servizio, ma al prezzo di perdere gli amici su Facebook e le ricerche «gratuite» su Google. È davvero «un’offerta che non si può rifiutare».

Si è arrivati a questa situazione grazie alla combinazione del modello di business di piattaforme finanziate dalla pubblicità e il potere di mercato che queste piattaforme digitali hanno accumulato. Non è un problema nuovo. Nel 1998 due brillanti dottorandi di informatica presso l’Università di Stanford pubblicarono l’articolo «L’anatomia di un motore di ricerca web ipertestuale su larga scala». Nell’appendice scrivevano:

«È chiaro che un motore di ricerca che riceva fondi per mostrare pubblicità sui telefoni cellulari avrebbe difficoltà nel giustificare la pagina che il nostro sistema restituisce ai suoi inserzionisti paganti. Per questo tipo di ragione e per l’esperienza storica con altri media, ci aspettiamo che i motori di ricerca finanziati dalla pubblicità saranno intrinsecamente sbilanciati a favore degli inserzionisti e lontani dalle esigenze dei consumatori».

Ecco l’ironia: gli autori dell’articolo erano Sergej Brin e Larry Page. Ora sappiamo come sono passati dalla teoria alla pratica: secondo gli ultimi risultati trimestrali disponibili, Google ha guadagnato oltre 37 miliardi di dollari dalla pubblicità, con la previsione di superare i 150 miliardi di dollari su base annua.

La concentrazione  dell’economia digitale, comprese le piattaforme come Facebook e Google, non nasce dal nulla. Questi settori si sono concentrati a causa delle forze economiche (effetti di rete), ma anche a causa della negligenza delle leggi antitrust. Facebook e Google sono cresciuti organicamente perché avevano dei buoni prodotti per i loro clienti, ma anche perché abbiamo permesso loro di crescere acquisendo centinaia di altre società. Negli ultimi vent’anni, le Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) hanno acquistato collettivamente mille aziende, il 97 per cento di queste transazioni non è stato controllato da nessuno, pochissime sono state messe in discussione e esattamente nessuna bloccata, negli Stati Uniti come in altre parti del mondo.

L’impatto della concorrenza

Il risultato è che non ci siamo resi conto di quanto impatto avrebbe potuto avere la concorrenza perduta. In particolare, non ci siamo resi conto dell’impatto che la concorrenza può avere sulla nostra privacy e sui nostri dati. Per decenni, i professionisti dell’antitrust hanno sostenuto che la privacy riguarda la protezione dei consumatori, che non è un problema di concorrenza. Questa visione è sbagliata. La concorrenza avviene su livelli diversi e il prezzo ne rappresenta solo uno. Anche qualità, le scelte e l’innovazione sono aspetti importanti per la concorrenza e per il benessere del consumatore.

In effetti, quando si ha a che fare con piattaforme digitali come Facebook e Google, i cui modelli di business sono stati costruiti attorno a servizi apparentemente “gratuiti”, per monetizzare in altri mercati collegati come la pubblicità, non ha alcun senso concentrare una valutazione competitiva sui prezzi, poiché questi sono stati fissati a zero per scelta.

La mancanza di concorrenza, in mercati tradizionali, comporta prezzi più alti e una qualità ridotta. Nel contesto di prezzi “zero”, la riduzione della qualità dovuta alla monopolizzazione può diventare ancora più evidente. Una riduzione della protezione dei dati e della privacy dei consumatori è esattamente un esempio calzante di una simile riduzione della qualità.

Nel 2019 la studiosa Dina Srinivasan ha presentato un interessante e dettagliato caso di studio su Facebook e le sue politiche sulla privacy. A metà degli anni 2000, da piattaforma social emergente, Facebook cercò di differenziarsi dal leader di mercato, Myspace. In particolare Facebook si impegno’ pubblicamente a proteggere la privacy, secondo quanto i suoi utenti avevano deciso. Facebook offriva privacy e gli utenti l’hanno apprezzato. E Facebook riuscì rapidamente a superare Myspace.

Quando però la concorrenza ha iniziato a scomparire (aiutata anche dall’acquisizione di Instagram nel 2012 e di WhatsApp nel 2014), Facebook ha revocato la possibilità ai suoi utenti di votare le modifiche alle politiche sulla privacy. La privacy e i termini di servizio sono cambiati: prendere o lasciare. Ma a questo punto non abbiamo più altri posti dove andare.

Le scorse settimane WhatsApp ha presentato ai suoi utenti una scelta simile: accettare i nuovi termini o andarsene. Gli utenti che, come me, volevano saperne di più dei nuovi termini, sono stati indirizzati su siti intricati e nebulosi. La mia sintesi imprecisa è che, a seconda del paese di residenza (compresi gli Stati Uniti), l’utente deve condividere le informazioni del proprio account con Facebook e i suoi affiliati. Queste informazioni includono le informazioni del profilo, la registrazione dei tempi e della frequenza di utilizzo di WhatsApp, informazioni sul tipo di interazione con gli altri, identificatori del proprio dispositivo, indirizzo IP, numero di telefono, pagamenti, dati sulle transazioni effettuate e così via. Questi sono i “metadati”. WhatsApp ha dovuto chiarire rapidamente che non accederà ai contenuti crittografati, ma si tratta di una difesa debole: WhatsApp e Facebook possono collegare un utente su varie app tramite gli identificatori personali (ad esempio, il numero di telefono o l’ID del dispositivo), quindi possono collegare i metadati con tutte le altre informazioni di cui sono a conoscenza.

Facebook dice che tutte queste modifiche verranno utilizzate «per far funzionare, fornire, migliorare, comprendere, personalizzare, supportare e commercializzare il nostro servizio». Ma che cosa significa? È forse una affermazione comprensibile? No, e mi considero moderatamente esperto di tecnologia. Certo, alcuni di noi potrebbero abbandonare WhatsApp per un altro servizio (Signal, forse Telegram), ma occorre non farsi ingannare dalla propria esperienza individuale. In molti hanno scaricato app alternative, ma la maggior parte delle persone non passerà a un’altra app di messaggistica o per paura di perdere i propri contatti (provate a trasferire tutte le vostre chat di gruppo, non e’ facile se non impossibile), o per un atteggiamento passivo, o per l’incapacità di rendersi conto delle alternative e delle conseguenze derivanti dal nostro consenso accordato.

Gli effetti sui nostri sosia digitali

A questo punto ci si potrebbe chiedere: «E allora? Non è ideale, ma non ho nulla da nascondere. Che Facebook o Google guardino pure tutto quello che vogliono: alla fine io ottengo qualcosa da loro gratuitamente». 

Purtroppo non è esattamente così: abbiamo dato loro alcune cose molto preziose (i nostri dati). I dati personali sono utilizzati per affinare gli algoritmi al fine di ottenere informazioni statistiche per molti scopi, come il targeting degli annunci politici e la vendita di cose ad altri profili che sono simili al nostro.

Dunque l’accettazione volontaria dei termini di servizio esercita effettivamente un’enorme esternalità negativa sui nostri sosia digitali, persone che sono statisticamente simili a noi in alcuni campi, ma che potrebbero avere preferenze sulla privacy molto diverse rispetto a noi. Questo e’ particolarmente importante in Europa dove ci sentiamo “protetti” dal GDPR. Non e’ vero: la riduzione della privacy in America o in Asia, viene utilizzata da Facebook/Whatsapp/Instagram per “allenare” gli algoritmi in quei paesi, ma una volta trovato il nostro sosia digitale, i risultati verranno applicati anche da noi in Europa.

O l’altra faccia della medaglia: anche tenendo molto alla nostra privacy, probabilmente accetteremmo comunque i nuovi termini di WhatsApp / Facebook poiché ormai hanno già abbastanza informazioni (statistiche) su di noi, quindi la nostra decisione non avrebbe più in realtà molto impatto. Siamo tutti incastrati.

Come usciremo da questa situazione? Non è facile. Il potere economico e politico di questi giganti digitali è enorme e non rimarranno passivi. Possono plasmare i governi, come ormai sappiamo bene. Ma abbiamo gli elementi principali davanti a noi per informare le future scelte politiche. È il modello di business che, come previsto venti anni fa dai fondatori di Google, a causare problemi. Questo modello di business è peggiorato con il potere di mercato acquisito negli ultimi 10 anni.

L’Antitrust a difesa dei dati

Il premio Nobel Paul Romer ha suggerito di introdurre una tassa digitale sulle entrate pubblicitarie. Condivido questa proposta nella misura in cui una tassa può limitare le esternalità negative: le imprese pagano quando inquinano. Ma una tassa non tocca il potere di mercato. Invece, credo che il modello di business debba essere sfidato prima di tutto da idee e da concorrenti rivali.

Questi concorrenti devono avere una possibilità di restare nel mercato grazie all’applicazione efficace delle leggi antitrust, e non dovrebbero solo contare sul fatto di essere inghiottiti da una ennesima acquisizione incontrastata da parte di una delle Gafam.

La concorrenza può ritornare a farsi vedere anche sulla privacy, integrata da una significativa protezione dei nostri dati. La soluzione sta nel ripristinare la struttura decentrata di internet, così come lo conoscevamo. Non è nostalgia, ma un principio fondamentale che risale alle radici stesse della tradizione antitrust americana, iniziata nel 1890 con l’approvazione dello Sherman Act come mezzo per controllare e disperdere la concentrazione del potere economico.

 

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