La multinazionale è pronta ad avviare un’azione giudiziaria contro l’azionista pubblico. Si va verso il commissariamento, ma serve almeno un miliardo per evitare la chiusura
E adesso? Adesso si ricomincia dal gas. Quello che serve all’Ilva per alimentare la fabbrica. A novembre, la Snam è stata costretta da una sentenza del Tar a riaprire i rubinetti delle forniture chiusi a novembre dopo mesi di mancati pagamenti da parte del gruppo siderurgico. Oggi però scade il termine del provvedimento giudiziario e si dovrà trovare il modo di scongiurare un nuovo stop che darebbe il colpo di grazia all’acciaieria. È probabile, quasi certo, che Snam, azienda di Stato, si renderà disponibile a venire incontro ancora per qualche tempo al debitore moroso.
La vicenda del gas rende bene l’idea di quale sia la situazione dell’Ilva, finita in un vicolo cieco, con le casse vuote e gli impianti quasi fermi, dopo un anno di scontri tra la multinazionale Arcelor Mittal, il socio di maggioranza, e il governo, che possiede il 32 per cento del capitale tramite la controllata Invitalia. Dopo il redde rationem di lunedì sera, l’azionista pubblico è rimasto con il cerino acceso in mano, come del resto era ampiamente prevedibile da mesi. Aditya Mittal, figlio del fondatore Lakshmi e numero uno del gruppo indiano, si è presentato all’incontro di Roma ben deciso a rispedire al mittente le proposte della controparte. Invitalia era pronta a versare da subito i 320 milioni indispensabili per evitare la chiusura e chiedeva al socio, a cui sarebbe rimasto il 33 per cento del capitale, di contribuire pro quota agli investimenti dei prossimi mesi, un miliardo in tutto.
Guerriglia legale
Niente da fare. Inevitabile, a questo punto, la rottura. Per aver mano libera, ed evitare che gli altoforni si spengano, forse per sempre, il governo deve riuscire a togliere le leve del comando a Mittal. Impresa non facile, visto che in base ai patti parasociali, la guida della società spetta al socio privato fino alla fine di maggio, che ha designato al vertice l’amministratrice delegata Lucia Morselli.
La soluzione più semplice, a questo punto, sarebbe l’amministrazione straordinaria. Un decreto legge del febbraio 2023 prevede espressamente che il socio con almeno il 30 per cento del capitale possa attivare questa procedura, che prevede l’affidamento di tutti i poteri di gestione a un commissario nominato dal governo. In questo modo, di fatto, Mittal sarebbe messa fuori causa. D’altra parte, si verrebbe a creare una situazione quantomeno inedita dal punto di vista societario. L’Ilva, infatti, si trova già in amministrazione straordinaria e gli impianti di Taranto sono stati affittati ad Acciaieria d’Italia holding, di cui sono soci Mittal e Invitalia. La procedura di salvataggio per le grandi aziende in crisi verrebbe quindi attivata per la società affittuaria. In pratica, avremmo una sorta di matrioska, un commissariamento al quadrato.
A questo punto però non è affatto detto che la multinazionale indiana sarebbe disposta a farsi da parte. Già nelle settimane scorse, Mittal ha contestato al governo una serie di inadempienze, chiedendo rimborsi per decine di milioni. È molto probabile che le stesse pretese verranno avanzate anche mei prossimi giorni, se l’azionista pubblico tenterà di scaricare il socio. Questa volta però le contestazioni si trasformerebbero in cause civili e darebbero inizio a un confronto legale destinato a durare mesi, se non anni. L’obiettivo di questa guerriglia giudiziaria sarebbe quello di costringere il governo a chiudere la partita versando una sorta di buonuscita al socio. Mittal sostiene di aver investito 1,8 miliardi nell’azienda italiana e tutto lascia credere che punti a recuperare almeno in parte i costi dell’avventura italiana.
In altre parole, gli indiani pretendono una buonuscita, come minimo, da centinaia di milioni per togliersi di torno. Sarebbe un colpo strepitoso, per loro: potrebbero congedarsi dall’Ilva a costo quasi zero, dopo aver messo al tappeto un’azienda come l’Ilva che un tempo era considerata un pericoloso concorrente. Inutile dire che il capolavoro indiano è stato facilitato dai continui cambi di rota dei governi di Roma, da quello gialloverde con Luigi Di Maio ministro dell’Industria, fino al Conte bis e a quello di Mario Draghi. Anche l’esecutivo di Giorgia Meloni ha dovuto per mesi fare i conti con la contrapposizione tra la linea di Adolfo Urso, che spingeva per la nazionalizzazione, e gli stop di Raffaele Fitto, favorevole fino all’ultimo a tener aperta la trattativa con gli indiani.
Costi futuri
L’esecutivo potrebbe anche promuovere un’istanza per la liquidazione volontaria della società. In questo caso, però le incognite sembrano ancora maggiori di quelle che circondano un’eventuale amministrazione straordinaria. Comunque vada a finire, ed escludendo la possibilità che Ilva venga chiusa per sempre, adesso tocca allo Stato farsi carico dei costi per tener in vita l’acciaieria. A maggio, per dire, scade l’affitto degli impianti (c’è anche da pagare un arretrato da decine di milioni di canoni non versati) e il piano iniziale era quello di ricomprarli al prezzo di almeno un miliardo, a cui ora dovrà far fronte per intero il socio pubblico.
L’impegno più gravoso sarà quello della cosiddetta decarbonizzazione degli impianti, per cui si parla di una spesa di almeno 5 miliardi. La somma potrebbe essere in parte recuperata grazie a fondi europei, ma sembra difficile che lo Stato sia disponibile ad affrontare un simile investimento, a maggior ragione un esecutivo con margini di manovra molto limitati sul piano finanziario, e per di più deciso, almeno a parole, a dare il via a un ambizioso piano di privatizzazioni. Probabile, allora, che nei prossimi mesi il governo apra le porte a un cavaliere bianco, magari una cordata di imprenditori siderurgici nazionali pronti a evitare il crack di Taranto, un crack con conseguenze sociali devastanti.
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