- L’Italia è tra i peggiori Paesi Ocse per riduzione dei salari reali. Tra il primo trimestre 2022 e lo stesso periodo del 2023, sono calati del 7,3%.
- Le economie più simili alla nostra registrano riduzioni di gran lunga inferiori. In Germania, per esempio, il calo è stato del 3,3 per cento, in Francia dell’1,8 e in Spagna dell’1,2.
- Questa differenza è legata anche alla dimensione media delle nostre imprese e ai ritardi nei rinnovi dei contratti collettivi.
Il ritorno dell’inflazione ci spinge a tornare a considerare il valore reale delle retribuzioni. Non conta tanto quanti soldi si guadagnano, ma quali e quante cose si possono acquistare con lo stipendio ricevuto, e l’aumento dei prezzi rende più complicato capirlo esattamente. Nell’ultimo anno, gli stipendi in Italia sono cresciuti dell’1,6 per cento in media. Il problema è che l’inflazione ha superato il 9 per cento, rendendo vani gli aumenti per la maggior parte dei lavoratori.
A questo proposito, l’Ocse ha pubblicato i dati aggiornati sulle retribuzioni reali nei Paesi avanzati. L’Italia ne esce molto male: tra il primo trimestre 2022 e lo stesso periodo del 2023, i salari reali sono calati del 7,3%. Su 34 paesi analizzati, solo sei hanno registrato una riduzione peggiore. Nessuna di queste economie, poi, è simile alla nostra: quattro sono Paesi dell’Europa dell’Est, cui si aggiungono Svezia e Finlandia, sicuramente molto avanti per livelli di benessere, ma non paragonabili al nostro paese per livello di sviluppo industriale. In tutte le altre economie avanzate, la situazione è migliore, spesso anche di molto. In media, le retribuzioni reali sono calate del 3,8 per cento nei Paesi Ocse e molte economie dell’Europa occidentale hanno fatto anche meglio. In Germania, per esempio, il calo è stato del 3,3 per cento, in Francia dell’1,8 e in Spagna dell’1,2. Negli Stati Uniti, i salari reali sono rimasti sostanzialmente stabili (-0,9 per cento), mentre sono cresciute solo nei Paesi Bassi, in Israele, in Costa Rica e in Belgio.
Perché i salari crescono meno in Italia
La prima ragione del pessimo risultato dell’Italia è la scarsa crescita dei salari nominali. Il nostro Paese è quart’ultimo tra quelli analizzati dall’Ocse, con solo un +1,6 per cento. In molte economie avanzate, la crescita degli stipendi è stata in doppia cifra e raramente è scesa sotto il +2 per cento in un anno. È evidente che, se l’inflazione cresce e le buste paga rimangono ferme, il potere d’acquisto calerà. Ma perché la crescita dei salari nominali è rimasta ferma? Una buona parte di questo ritardo si potrebbe attribuire ad almeno due ragioni.
Innanzitutto, le imprese italiane sono in media di dimensioni molto piccole. Le piccole-medie imprese vengono spesso celebrate come la “spina dorsale” dell’economia, ma in realtà possono rappresentare un freno alla crescita. Vale per la capacità produttiva in generale, dato che la piccola dimensione non permette grandi investimenti e, quindi, innovazioni nei processi che migliorino la produttività, ma anche per i salari. La produttività dei lavoratori delle piccole imprese rimane più o meno costante nel corso della carriera, così come il fatturato. Questo significa che, in un momento in cui sarebbero richiesti degli aumenti, la Pmi ha di solito molto poco spazio per far crescere i salari dei propri dipendenti.
C’è poi una scarsa capacità dei sindacati di far valere i diritti dei propri iscritti. Per quanto l’Italia sia uno dei Paesi con tassi di iscrizione al sindacato più alti al mondo, le organizzazioni dei lavoratori hanno dimostrato più volte in questi anni di non riuscire a tenere il passo con i rinnovi contrattuali. Ci sono decine di contratti collettivi nazionali scaduti che non vengono rinnovati in tempo e spesso devono aspettare anni per farlo. È una situazione su cui si è protestato molto in questi anni, ma che, nei fatti, non aveva portato a conseguenze particolarmente gravi. A parità di potere d’acquisto della moneta, infatti, il mancato rinnovo comportava sì una perdita potenziale in termini di aumenti, ma perlomeno non portava a un danno concreto sulla propria capacità di spesa. Oggi che l’inflazione è di gran lunga superiore rispetto ai livelli dell’ultimo decennio, questo problema diventa decisamente più rilevante.
Il ruolo dei profitti
Come già sottolineato in un altro articolo, nell’eurozona i margini di profitto delle aziende sono rimasti costanti. Significa che le imprese in media non hanno “speculato” sull’aumento dei prezzi, ma anche che non hanno rinunciato in alcun modo al “potere d’acquisto” dei propri profitti, mentre i lavoratori hanno pagato tutto il prezzo dell’inflazione con salari che crescevano meno velocemente dei prezzi. Anche i dati Ocse suggeriscono questa lettura: in molti Paesi, i profitti sono cresciuti più velocemente dei salari, confermando che le imprese si sono impegnate per mantenere gli stessi margini, senza permettere un adeguamento all'inflazione dei salari. Questo però non sembra essere avvenuto, perlomeno in media, in Italia, dove salari e profitti sono cresciuti più o meno della stessa entità tra il 2019 e oggi.
© Riproduzione riservata