Per il 72 per cento degli italiani lo stile imprenditoriale, nella maggioranza delle imprese, è ancora dirigistico-militaresco o rapace, interessato solo a fare sempre più soldi
- Solo il 21% di imprenditori ha uno stile “responsabile, attento alla società” (10 per cento), oppure “dialogico, disposto ad ascoltare i dipendenti” (11 per cento).
- Ad avvertire maggiormente lo stile “padronale” sono le persone che lavorano nel centro Italia, quanti hanno un’esperienza lavorativa lunga e quanti appartengono al ceto medio basso.
- Per gli italiani solo le cooperative pensano meno al profitto a tutti i costi, sostengono maggiormente i territori e i dipendenti, si impegnano in cause sociali e di solidarietà.
Nel giorno della Festa del lavoro, in cui si intendono celebrare le lotte e l’impegno di milioni di persone, di lavoratori e delle loro famiglie, per migliorare le condizioni di lavoro, è utile ragionare e provare a osservare qual è l’immagine e il profilo degli imprenditori italiani. La festa del lavoro ricorda lo sciopero generale indetto negli Stati Uniti il primo maggio 1886 per la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore e celebra il massacro di piazza Haymarket (Chicago, Usa), in cui la manifestazione degli operai venne repressa nel sangue.
Anche in Italia il Primo maggio ha la sua scia di sangue. Non si deve tornare all’Ottocento, ma al primo secondo dopoguerra, a Portella della Ginestra (Palermo), quando su una manifestazione popolare venne aperto il fuoco uccidendo 11 persone e ferendone una cinquantina. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Nel 2018, Larry Fink (Ceo di BlackRock), nella sua lettera ai soci “A Sense of Purpose” (Avere uno scopo) ha scritto: “per prosperare nel tempo, la performance finanziaria non è sufficiente; ogni impresa deve dimostrare di aver contribuito positivamente allo sviluppo della società”. L’anno seguente, 181 Ceo delle principali imprese americane riuniti nella Business Roundtable, affermano: “per creare valore di lungo periodo, le aziende non devono solo portare dividendi ai propri azionisti, costi quel che costi. L’attenzione al profitto deve rimanere, ma dovrà essere solo una delle linee guida: d’ora in avanti i manager devono considerare anche l’impatto sull’ambiente e sulle comunità locali, i rapporti corretti con i fornitori, il rispetto dei consumatori e le condizioni offerte ai propri dipendenti”.
Il giudizio degli italiani
Ma quanto è agente, tra gli imprenditori italiani, questo complesso di petizioni di principio, il famigerato e decantato purpose aziendale? Per rispondere a questa domanda basta volgere lo sguardo al giudizio sugli imprenditori espresso dalle lavoratrici e dai lavoratori. Il 41 per cento degli italiani afferma che gli imprenditori nostrani, nel guidare la loro impresa, hanno uno stile “rapace, interessato solo a fare sempre più soldi”. Un ulteriore 31 per cento sostiene che hanno uno modus operandi “padronale, a mo’ di comandante”. Se il 72% dei leader e dei manager d’impresa sembra essere molto lontano dagli intenti del manifesto della Business Roundtable, vi è anche un 21% di imprenditori che, invece, ha uno stile “responsabile, attento alla società” (10 per cento), oppure “dialogico, disposto ad ascoltare i dipendenti” (11 per cento).
Ad avvertire maggiormente lo stile “padronale”, sono le persone che lavorano nel centro Italia (78 per cento), quanti hanno un’esperienza lavorativa lunga (77 per centro tra gli over cinquant’anni) e quanti appartengono al ceto medio basso (76 per cento). I tratti che, secondo l’opinione pubblica, fanno di un imprenditore e di un’azienda dei probi applicatori del purpose sono molteplici. Al primo posto c’è la capacità di rispettare le persone, in primis i dipendenti (58 per cento), sul secondo gradino si colloca la riduzione l'impatto ambientale delle attività (48 per cento) e al terzo livello c’è il sostegno alle comunità in cui l’azienda opera (44 per cento). Alle imprese è chiesto, inoltre, di offrire prodotti garantiti e sicuri (30 per cento) e ai manager di evitare la logica del profitto a tutti i costi (29 per cento). Il 15 per cento degli italiani, infine, auspica manager impegnati in cause sociali e solidarietà, mentre il 14 per cento richiede forme di informazione e pubblicità corrette, responsabili ed educative. Non tutte le imprese, però, sono uguali.
Secondo i dati rilevati dall’osservatorio Legacoop-Ipsos, gli italiani ritengono le imprese cooperative, rispetto alle imprese private di capitale (Spa, srl ecc), maggiormente capaci nell’evitare la logica del profitto a tutti i costi (67 per cento contro il 33 delle imprese di capitale); nel sostenere e valorizzare la comunità e i territori (57 per cento contro 43 per cento); nel rispettare le persone e i dipendenti (52 per cento contro 48); nell’impegnarsi in cause sociali e di solidarietà (60 per cento contro 40).
I danni del dirigismo aziendale
Il quadro che emerge dall’opinione pubblica non mostra solo quanto sia in salita, tra i manager italici, il percorso verso il purpose, ma fa evidenzia anche una crisi di legittimazione della classe economica del nostro Paese, che può avere pesanti riflessi negativi sulla ripresa economica post-Covid. Lo stile padronale denunciato può danneggiare la capacità delle aziende di reagire alle situazioni, la spinta all’innovazione e alla germogliazione di un humus imprenditoriale generativo (capace di foraggiare il talento e lo sviluppo di una società viva e dinamica), ma può anche incidere negativamente sulla morfologia della classe dirigente (la volontà e la capacità di selezionare i migliori). Nel giorno del Primo maggio si deve continuare a parlare di lavoro (del suo valore, dalla sua qualità e di tutela dei diritti delle persone), ma si deve anche iniziare a riflettere sul profilo e sulla qualità di imprenditori e manager. Per cambiare il lavoro e la sua qualità, per far ripartire il Paese, occorre anche una classe imprenditoriale all’altezza della sfida.
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