Jerome Powell, a capo della banca centrale Usa, annuncia che la stretta monetaria proseguirà. Adesso si attendono le decisioni della Bce, mentre in Borsa aumenta il timore di una recessione
Il lavoro non è ancora finito. L’economia resta esposta ai rischi di un’inflazione elevata. Quindi i tassi potranno salire ancora. Si può riassumere così l’atteso discorso della massima autorità monetaria mondiale, il presidente della Fed statunitense, Jerome Powell, che ieri dall’annuale simposio dei banchieri centrali a Jackson Hole, nel Wyoming, ha deluso le attese di chi si attendeva un approccio più conciliante. Le aspettative di molti analisti erano fondate sul fatto che la corsa dei prezzi negli Stati Uniti ha rallentato il passo nella prima metà dell’anno.
Le parole di Powell hanno subito avuto un più che prevedibile effetto positivo sul dollaro, che si è rafforzato su tutte le principali valute, mentre gli indici di Borsa europei dopo una prima frenata hanno recuperato terreno chiudendo la giornata con un minirialzo (Milano più 0,51 per cento). Il timore degli investitori, infatti, è che una stretta eccessiva dia il colpo di grazia al motore dell’economia che in Europa viaggia da tempo con il freno tirato.
«Abbiamo alzato i tassi in maniera significativa», ha ricordato Powell, per poi spiegare che «sebbene l'inflazione sia scesa rispetto al picco, uno sviluppo gradito, rimane troppo alta e pertanto rimaniamo intenzionati ad alzare i tassi ancora fino a che scenderà verso l'obiettivo del 2 per cento». A luglio l’indice del costo della vita negli Stati Uniti è cresciuto al ritmo del 3,2 per cento rispetto all’anno precedente, molto meno in confronto al 5,4 per cento di gennaio (e al 9 per cento dell’estate 2022), ma in leggero rialzo rispetto al 3 per cento di giugno.
Anche la Fed, dopo dieci rialzi consecutivi, a giugno aveva lasciato invariati i tassi, per poi decidere una nuova stretta il mese giugno. Il mese scorso, quindi, il tasso di riferimento è passato dal 5,25 al 5,5 per cento. Va ricordato che solo una quindici mesi fa il costo del denaro negli Stati Uniti era intorno a zero. Poi la fiammata inflazionistica, alimentata dapprima dal boom dei prezzi delle materie prime, ha convinto la banca centrale Usa a innescare la più rapida inversione di rotta della storia, seguito a qualche mese di distanza dalla Bce, che con l’ultimo aumento deciso a fine luglio è arrivata a toccato quota 4,25 per cento.
È ancora presto, però, per dichiarare finita la fase rialzista. «C’è ancora molta strada da fare per riportare i prezzi sotto controllo» ha affermato ieri Powell. Cioè per raggiungere l’obiettivo dell’inflazione verso il 2 per cento, livello che viene generalmente considerato fisiologico dai banchieri centrali. A questo punto la maggior parte degli analisti prevede che nei prossimi due mesi la Fed ritocchi ancora al rialzo i tassi, in attesa di valutare, sulla base dei dati economici le mosse successive.
Il rischio, un rischio di cui Powell è ovviamente ben consapevole, è che una stretta eccessiva finisca per innescare una recessione, il temuto hard landing che avrebbe conseguenze negative per le aziende e i cittadini. Per il momento, nonostante i tassi d’interesse abbiano raggiunto il livello più alto degli ultimi 22 anni, negli Stati Uniti l’economia reale manda ancora segnali di tenuta, se non addirittura di vivacità. La creazione di nuovi posti di lavoro, per esempio, viaggia ancora a ritmi da record. Il Pil americano nel secondo trimestre è cresciuto del 2,4 per cento, in aumento rispetto al 2 per cento dei primi tre mesi dell’anno.
Ad accrescere l’incertezza sugli sviluppi futuri c’è anche il fatto che le decisioni delle banche centrali impiegano fino a sei mesi per sentire i loro effetti sull’economia reale e quindi potrebbe essere ancora presto per capire se la Fed si è spinta troppo in là con l’incremento del costo del denaro. Nel frattempo, sono aumentate anche le minacce sul sistema globale, prima tra tutte quella della Cina, in grave difficoltà tra rallentamento del Pil e problemi di tenuta dell’enorme debito, pubblico e privato, accumulato negli ultimi anni.
Sul fronte europeo c’è grande attesa anche per la strategia che adotterà la Bce. Le previsioni della maggioranza degli analisti davano per probabile uno stop all’aumento dei tassi, visto che la crescita dell’area euro dà sempre maggiori segnali di difficoltà, a cominciare da quella della Germania. L’inflazione europea però resta su livelli più elevati rispetto a quella Usa: 5,3 per cento contro il 3,2 di quella americana.
E a rendere più complicata la situazione c’è anche il fatto che all’interno dell’area dell’euro il costo della vita si è mosso in modo molto differente tra i vari Paesi. Si va dal 6,5 per cento della Germania, al 6,3 per cento dell’Italia (misurato con metodologia Ue), fino al 5,1 per cento francese e al 2,1 della Spagna. Un ulteriore aumento dei tassi potrebbe quindi avere effetti diversi su ciascun paese membro.
Nei mesi scorsi la Bce ha sempre seguito la rotta della Fed, seppure con qualche ritardo. Adesso però la politica preme sempre di più sull’istituzione di Francoforte per chiudere una volta per tutte con la stretta monetaria. Pressioni che sono destinate ad aumentare mentre ci si avvicina all’appuntamento delle elezioni europee della prossima primavera. Si vedrà presto se la presidente Christine Lagarde si accoderà a Powell o deciderà per una strategia più accomodante.
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