Più del dieci per cento dei fondi del piano di ripresa sono destinati alla ferrovie, con l’idea di dirottarvi il traffico su strada. Ma in larghissima misura sono vasi non comunicanti. Anche l’idea che trasporti migliori possano aumentare la crescita o ridurre i divari tra centro e periferia è tutt’altro che provata.
- Più del dieci per cento dei fondi del piano di ripresa sono destinati alla ferrovie, con l’idea di dirottarvi il traffico su strada. Ma in larghissima misura sono vasi non comunicanti.
- Migliorare le prestazioni della seconda non ha, a livello nazionale, quasi alcun impatto sulla prima. Quasi tutti i Paesi europei hanno emissioni pro-capite superiori a quelle del nostro Paese.
- Anche l’idea che infrastrutture ferroviarie migliori possano aumentare la crescita o ridurre i divari tra centro e periferia è tutt’altro che provata.
Ottenere la sostenibilità ambientale e la convergenza economica tra le diverse zone del Paese investendo in ferrovie: sono i due obiettivi della Missione 3 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) alla quale vengono attribuite risorse per un totale di 25 miliardi, più del 10 per cento dell’intero piano. C’è un problema: si tratta di una mission impossible.
Partiamo dalla sostenibilità. Si legge nel documento: «Il trasferimento del traffico passeggeri e merci dalla strada alla ferrovia avrà importanti impatti sull’abbattimento delle emissioni di gas serra. Si stima che un aumento della quota dei passeggeri che utilizzano la ferrovia dal 6 al 10 per cento comporterà un risparmio annuo di CO2 pari a 2,3 milioni di tonnellate».
Ora, nel documento non vi è alcuna indicazione di come gli investimenti previsti possano portare a conseguire quell’obiettivo. Forse, perché il risultato non è raggiungibile. È sufficiente guardare al passato per rendersene conto. Negli scorsi decenni non sono certo mancati ingenti trasferimenti di risorse al trasporto su ferro: l’ammontare complessivo negli ultimi trent’anni è intorno a 500 miliardi, equivalenti a un quinto dell’attuale debito pubblico. Ebbene, nello stesso periodo la quota di domanda di trasporto passeggeri soddisfatta dalla ferrovia è diminuita dal 6,5 per cento al 6,2 per cento.
Un calo europeo
Si tratta di un’eccezione? No. In Europa il peso della ferrovia è rimasto invariato, pari al 6,9 per cento. Ancor peggio è andata per le merci: nel 1995 la quota “ufficiale” era pari al 15,6 per cento, nel 2018 al 12,6. E occorre sottolineare come questi valori non descrivano in modo corretto la realtà della mobilità delle merci: fanno riferimento al peso degli oggetti trasportati e non ai flussi veicolari o al valore economico. Con riferimento a entrambe queste dimensioni, il trasporto su ferro ha un ruolo molto più limitato: intorno al 3 per cento in Europa e al 2 per cento in Italia. Un ipotetico raddoppio delle merci trasportate su ferrovia in Italia (attualmente sono le stesse di 30 anni fa), determinerebbe una riduzione della CO2 del settore stradale di circa l’uno per cento.
Strada e ferrovia sono in larghissima misura vasi non comunicanti. Migliorare le prestazioni della seconda non ha, a livello nazionale, quasi alcun impatto sulla prima. Ce ne fornisce una conferma indiretta il fatto che quasi tutti i Paesi europei, anche quelli dotati di un’offerta di servizi ferroviari migliore di quella italiana, hanno emissioni pro-capite superiori a quelle del nostro Paese.
C’è da aggiungere che, per ogni tonnellata in meno di CO2 prodotta dal trasporto su strada, lo Stato perde un introito pari a circa 300 euro, cifra con la quale potrebbe ridurre le emissioni in altro ambito per un multiplo della quantità evitata: nel mondo oggi è possibile contenere una parte rilevante di emissioni con un costo unitario di alcune decine di dollari.
Paradossalmente, il settore del trasporto stradale potrebbe essere reso «climaticamente neutrale» se gli otto miliardi che ogni anno vengono trasferiti alle ferrovie venissero impiegati per ridurre la CO2 al di fuori dell’ambito dei trasporti.
Inefficacia, irrilevanza, inefficienza
La politica di cambio modale assomma quindi inefficacia, quasi irrilevanza, a inefficienza.
Lo stesso dicasi per la crescita economica. Sono ormai numerose le evidenze che mostrano come il miglioramento della dotazione infrastrutturale non abbia, in Paesi avanzati, effetti apprezzabili. Tra gli altri, si possono citare i casi della realizzazione di autostrade nei Paesi periferici dell’Europa, dell’alta velocità in Spagna e in Francia o, nel caso del sud Italia, la Salerno – Reggio Calabria. Migliori collegamenti possono addirittura allargare i divari tra zone centrali più forti e quelle periferiche.
D’altra parte, se la crescita nel lungo periodo non può che derivare da un aumento della produttività non si vede come possa avere un ruolo di un qualche rilievo il fatto che alcune decine di migliaia di persone su una popolazione di molti milioni possano spostarsi più velocemente e comodamente.
Il mancato ripensamento di politiche perseguite senza successo in passato appare ancor più grave in considerazione delle negative prospettive demografiche per l’Italia e di una probabile riduzione strutturale della domanda di trasporto su ferrovia a seguito della maggior utilizzo delle tecnologie per incontri virtuali.
Se una attenuante può essere riconosciuta al governo è quella del forte condizionamento esterno. È infatti la Unione europea che, a dispetto di ogni evidenza in senso contrario, continua ad attribuire alle ferrovie un ruolo centrale per la decarbonizzazione. E si sa, chi paga ha sempre ragione.
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