Il mercato del lavoro in Italia sta cambiando notevolmente: da mercato dominato dalla domanda (scarsa) da parte delle imprese a fronte di un’offerta di lavoro (elevata) da parte delle persone, si sta passando a un mercato dominato dall’offerta di lavoro che risulta minore o non allineata alla domanda da parte delle imprese. Per anni la politica del lavoro si è concentrata su come favorire le assunzioni ed ancora oggi si pensa di abbattere i costi delle assunzioni fiscalizzando il cuneo contributivo, come se le imprese non assumessero essenzialmente a causa di costi elevati. In realtà oggi ci troviamo di fronte a esigenze diverse: sono le imprese che fanno fatica a trovare lavoratori, al punto che molte di esse sono a favore di maggiore immigrazione e alcune si sono dedicate anche alla professionalizzazione degli immigrati per garantirsi la necessaria manodopera.
Questo cambiamento è apparso evidente dopo il Covid, ma è in atto da diversi anni ed è favorito dal calo demografico che ha ridotto sensibilmente l’offerta di lavoro giovanile, assieme a una nuova attitudine delle persone, e in particolare dei giovani, nei confronti del lavoro. Il tutto in una società dove il patrimonio accumulato dalle generazioni passate rappresenta un fattore di protezione per le scarse generazioni future, che sono meno incentivate a cercare immediatamente uno sbocco lavorativo.
Ovviamente, questo è un discorso generale e non riguarda tutte le persone, sicché ci sono ancora oggi diffusi casi di incapacità a trovare lavoro per molti giovani, casi di sfruttamento e di precarietà involontaria in diversi territori del nostro paese. Ma nel complesso, il numero degli occupati in Italia ha toccato livelli mai conosciuti prima e il tasso di occupazione è in aumento, mentre quello della disoccupazione resta fermo attorno al 7% (era stato a due cifre nel passato), malgrado andamenti dell’economia non proprio esaltanti. Inoltre, il numero di contratti a tempo indeterminato resta elevato anche in ragione di una trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a senza termine.
Siamo ancora distanti dai livelli di occupazione di altri paesi, specie con riferimento al lavoro femminile, ed anche a quello giovanile, ma è certo che le tendenze in atto ci stanno riavvicinando agli standard europei. In queste condizioni, appare poco indicata la proposta avanzata dalla CGIL di Landini per chiedere l’abolizione del Job Act e il ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Una tale richiesta ci riporta indietro di decenni, in un’epoca ormai superata. Il livello della precarietà in Italia non è superiore a quanto avviene in altri paesi ed è legato alla tipologia di alcuni lavori in particolare nei servizi, com in tutti i paesi. Inoltre, la presenza di lavori a termine ha favorito l’innalzamento del tasso di occupazione dando a molti giovani la possibilità di accedere a un primo lavoro. La mobilità del lavoro si sta accentuando e questo rende meno difficile trovare un lavoro in caso di perdita. Che senso ha, allora, riproporre l’obbligo di reintegro nei casi di licenziamenti senza giusta causa?
Il mercato del lavoro in Italia soffre di altri problemi: basse remunerazioni, difficoltà di far coincidere domanda e offerta di lavoro sia sul piano professionale che su quello territoriale, scarsa capacità di assorbire manodopera femminile, poca trasparenza per i giovani al primo impiego, eccesso di familismo nella ricerca del lavoro e nella progressione di carriera, e si potrebbe continuare. Su questi temi è legittimo avviare riflessioni e anche battaglie sindacali. Ma rimanere ancorati ai vecchi slogan di un tempo non ci farà avanzare, porterà a contrapposizioni ideologiche e segnerà un ulteriore scollamento con i giovani che hanno ben altri problemi. Con tutto il rispetto per l’azione del sindacato dei lavoratori, sarebbe meglio se ci fosse un ripensamento per evitare confronti poco utili in questi tempi già troppo tesi.
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