La Bce ha deciso di lasciare i tassi invariati, ma per il futuro un ruolo rilevante nelle decisioni della banca centrale sarà giocato dalla dinamica salariale
La Bce ha deciso di lasciare i tassi invariati, ribadendo che non comincerà a ridurli fino a quando non ci sarà la certezza che l’inflazione è destinata a tornare stabilmente al 2 per cento. La politica monetaria rimarrà data dependent, ovvero le decisioni sui tassi dipenderanno dai dati che verranno via via resi noti.
Quali sono questi dati, la Bce non lo dice. Tuttavia da diverse dichiarazioni si evince che la dinamica salariale giocherà un ruolo rilevante nelle decisioni della banca centrale; e poiché non si avrà il quadro completo sul mercato del lavoro prima di fine aprile, la stessa presidente Christine Lagarde ha lasciato intendere che la prima riduzione dei tassi potrà avvenire solo a partire dalla riunione di giugno.
La Bce prevede il soft landing ovvero la riduzione dell’inflazione senza una caduta dell’attività economica. C’è invece il serio rischio che a giugno avremo pure l’inflazione in chiara discesa al 2 per cento, ma al costo di una recessione.
Il problema
La Bce attribuisce grande importanza alle dinamiche del mercato del lavoro perché ritiene che le imprese scaricherebbero gli aumenti salariali sui prezzi a valle per mantenere i margini di profitto. Le imprese, tuttavia, riescono ad aumentare i listini solo quando non temono di perdere quote di mercato, e quando la domanda per i loro prodotti è largamente insensibile al fattore prezzo.
Ma la domanda nell’Eurozona cresce poco o nulla, la fiducia dei consumatori è a un livello storicamente basso, le indagini sullo stato delle imprese, ordinativi e prospettive sono coerenti con una contrazione dell’attività economica, specialmente in Francia e Germania, mentre la domanda estera soffre per via del perdurante rallentamento della Cina. Non certo uno scenario economico in cui le imprese possono facilmente recuperare i margini aumentando i prezzi.
Inoltre, la domanda aggregata dipende dalla liquidità in circolazione, ovvero dalla politica monetaria che è oggi più restrittiva di quanto il livello dei tassi possa far pensare. Quello che conta è la dimensione del bilancio della banca centrale: un suo acquisto di un titolo sul mercato o un suo prestito a una banca immette infatti nel sistema una quantità equivalente di liquidità.
Per fronteggiare la pandemia, la Bce ha immesso complessivamente nel sistema 4.100 miliardi (l’aumento delle sue attività in bilancio) attraverso l’acquisto di 2.275 miliardi di titoli e 1.500 miliardi di prestiti alle banche.
Da metà 2022, quando ha cominciato ad aumentare i tassi, a inizio 2024, la Bce ha però ridotto il proprio bilancio, sottraendo liquidità per 1.870 miliardi, principalmente con la riduzione dei crediti alle banche; e ha annunciato che a fine anno cesserà anche l’acquisto di titoli, di fatto riducendone l’ammontare in portafoglio man mano che i titoli scadono.
Un deficit di credibilità
La riduzione della liquidità a sua volta ha impresso una forte contrazione del credito a imprese e famiglie, passato da una crescita annua del 7 per cento a settembre 2022, fino ad azzerarsi lo scorso novembre. Sondaggi e indicatori finanziari mostrano poi come le aspettative di inflazione siano ben ancorate al 2 per cento.
C’è inoltre un aspetto positivo nella crescita salariale, dettata dalla necessità di recuperare il potere di acquisto falcidiato dall’inflazione, e in quanto tale destinata ad esaurirsi nel tempo: è infatti necessaria per sostenere i consumi, da cui dipende lo scenario di soft landing.
I salari e l’occupazione a cui guarda la Bce non servono infine a prevedere la futura dinamica dei prezzi perché è un indicatore ritardato: quando i salari perdono stabilmente potere di acquisto e aumenta la disoccupazione è troppo tardi, la recessione è già iniziata. E questo il serio rischio che corre la Bce.
Non avendo previsto l’arrivo dell’inflazione, e avendo cominciato ad aumentare i tassi sei mesi dopo la Federal Reserve, la Bce ha chiaramente un deficit di credibilità. Non vorrei che questa determinazione nel mantenere una politica monetaria più restrittiva di quanto probabilmente sarebbe necessario a riportare l’inflazione al 2 per cento sia dovuta al desiderio di ricostruire una credibilità perduta. La recessione sarebbe un prezzo troppo salato da pagare.
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