Siamo tornati a essere gli ultimi di tutta l’Unione europea. L’illusione che le cose fossero cambiate, per la ridefinizione delle catene del valore e dei flussi nel mondo post Covid, o magari per il Pnrr, è svanita durante il primo anno di governo Meloni.
Il Fondo monetario internazionale ha ora ridotto ancora le stime della crescita dell’Italia, per il 2024 (da 0,8 a 0,7 per cento del Pil) e per il 2025 (da 1,2 a 1 per cento). Siamo gli ultimi nell’intero continente europeo, a dirla tutta, finanche la Russia di Putin si prevede che farà meglio di noi (rispettivamente 1,1 e 1 per cento).
Davanti a dati simili non si può invocare il difficile contesto internazionale. Il contesto c’è per tutti i paesi: e tutti, nessuno escluso, ci superano. Difatti, per il Fmi, il governo Meloni è pienamente responsabile di questa situazione.
Il primo problema dell’economia italiana è la bassa produttività. Nulla di sorprendente: tutti gli esperti ne sono ben consapevoli.
La produttività stagnante deriva, innanzitutto, dalla tipologia e dalla specializzazione delle nostre imprese. Sono piccole, spesso piccolissime, non hanno le risorse per innovare e si acconciano quindi a competere per l’altra via: in breve, riducendo i salari e cercando di pagare meno tasse.
E il governo Meloni cosa fa? Invece di contrastare questa situazione, la asseconda e la agevola. Da un lato blocca il salario minimo, che oltre a essere una misura giusta in sé dà più valore al lavoro e quindi può spingere le imprese a investire nell’innovazione, come è avvenuto in Germania; elimina il reddito di cittadinanza, che pur con tutti i suoi difetti non obbligava le persone ad accettare salari da fame.
Dall’altro dedica ingenti risorse, la maggior parte della sua manovra, a farsi carico con soldi pubblici di quel che dovrebbero fare queste imprese: un ristoro per chi ha redditi medio e bassi, temporaneo e modesto, talmente modesto che serve semplicemente a evitare che si riducano i salari nominali.
Il prezzo di queste scelte sbagliate è il mancato investimento nei servizi sociali, a partire dalla sanità (spesso con un impatto su chi ha redditi bassi ben maggiore), il depauperamento della pubblica amministrazione (su cui invece bisognerebbe investire e che anzi andrebbe rilanciata, anche per favorire le imprese), la crescita dell’indebitamento (che ci espone alle turbolenze internazionali e all’aumento dei tassi).
E non solo. Il governo ignora completamente la grande questione fiscale dell’Italia. Per consolidare il bilancio favorendo la crescita, senza tagliare welfare e servizi, occorre tassare rendite e grandi patrimoni, così da rendere più conveniente investire in attività imprenditoriali.
E poi bisogna abolire la flat tax per le partite Iva, che toglie miliardi al nostro erario, favorisce l’evasione e la piccola dimensione, cioè (di nuovo) i mali all’origine della nostra bassa produttività, crea iniquità.
Un regime che invece l’anno scorso il governo Meloni ha addirittura ampliato, innalzando la soglia da 65 a 85mila euro. Questo mentre continua a favorire le sue corporazioni di riferimento (tassisti, balneari), ignorando le direttive europee e impendendo la modernizzazione di alcuni servizi. Non ultimo, ha espunto dall’agenda le politiche ambientali, che invece possono essere (anche) l’occasione per rinnovare e rafforzare il nostro sistema produttivo che ha bisogno di modificare profondamente la sua struttura.
Nella loro propaganda, le destre dovevano ridare autorevolezza e prestigio alla «nazione». Ci hanno invece ricacciati in un orizzonte esattamente opposto: l’impoverimento e il declino.
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