Il colosso Evergrande ha presentato un’istanza per ottenere protezione dai creditori, mentre il sistema dei trust rischia il tracollo. La valuta nazionale è ai minimi sul dollaro e i provvedimenti delle autorità per rilanciare l’economia finora non hanno avuto successo
La settimana nera della Cina, cominciata lunedì con la notizia che l’economia del paese è finita in deflazione, si è conclusa ieri con un nuovo passo verso il baratro di Evergrande, colosso immobiliare del Dragone sull’orlo del collasso. Intanto, da giorni i mercati finanziari stanno seguendo con crescente preoccupazione la china ribassista della moneta cinese, il renminbi, avviato ai minimi sul dollaro dal 2007, mentre la banca centrale di Pechino ha tentato di ridare fiato al sistema iniettando nuova liquidità agli istituti di credito.
Il motore della seconda economia del mondo batte in testa e allora non è una sorpresa che gli investitori diventino ancora più cauti sulle prospettive globali. Ieri, infatti, tutte le Borse internazionali, da quelle del Far East fino a Wall Street passando per l’Europa, hanno aggiunto nuovi ribassi a quelli dei giorni scorsi. Il timore diffuso è che la Cina si trovi invischiata tra stagnazione economica e turbolenze finanziarie.
La punta dell’iceberg
Dopo anni e anni di sviluppo drogato da giganteschi finanziamenti pubblici e da una politica monetaria più che espansiva, adesso traballano anche le impalcature che reggono il sistema finanziario. Due giorni fa, Zhongrong International Trust, uno dei più grandi gestori di risparmi cinesi, si è trovato a corto di liquidità e ha sospeso il rimborso ai sottoscrittori dei propri prodotti d’investimento. Questa, però, potrebbe essere solo la punta di un iceberg, visto che da tempo il settore dei trust, assimilabili di fatto a grandi fiduciarie, naviga in grosse difficoltà, tanto che in primavera il governo ha varato una nuova normativa ad hoc nella speranza di evitare crack dalle conseguenze imprevedibili. Il caso Zhongrong dimostra però che l’intervento delle autorità non ha risolto il problema. La miccia porta direttamente alle grandi società immobiliari, che faticano a far quadrare i conti dopo anni di investimenti colossali favoriti dall’ampia liquidità disponibile sul mercato.
Proprio questi operatori sono i principali beneficiari dei capitali raccolti dai trust tra centinaia di milioni di risparmiatori, in gran parte famiglie e gente comune che ora ha paura di veder evaporare i propri soldi.
Spirale negativa
La tensione sembra destinata ad aumentare visto che i focolai di crisi si moltiplicano. È di ieri la notizia che il gruppo immobiliare Evergrande ha presentato un’istanza negli Stati Uniti con l’obiettivo di ottenere la protezione dai creditori. La possibile bancarotta di un colosso che ha raccolto oltre 19 miliardi di dollari di crediti fuori dalla Cina ha dato un ulteriore colpo alla fiducia degli investitori sulla solidità del sistema finanziario di Pechino. Del resto, proprio prima di Ferragosto, si è scoperto che anche un altro gigante dell’immobiliare cinese come Country Garden non è in grado di pagare gli interessi su una decina di proprie emissioni obbligazionarie. Nel tentativo di arginare la fuga dei capitali stranieri, ieri l’Authority finanziaria di Pechino ha annunciato una serie di misure per facilitare gli scambi e proteggere il mercato da scivoloni improvvisi. Oltre a regole più stringenti sulle nuove quotazioni in Borsa, la manovra prevede anche un prolungamento degli orari delle contrattazioni.
Ci vuole altro, però, per sgombrare il campo dai nuvoloni che minacciano l’economia del Dragone. Tutti gli indicatori economici confermano che le preoccupazioni dei mercati sono giustificate. Una statistica in particolare ha sorpreso gli analisti. Infatti, mentre il resto del mondo è costretto a combattere contro l’inflazione, la Cina adesso si trova in deflazione, con l’indice dei prezzi al consumo che in luglio ha fatto segnare un calo dello 0,3 per cento. Il dato negativo si spiega con la debolezza della domanda interna. Ma è l’economia nel suo complesso che continua a viaggiare al rallentatore.
Nel primo semestre dell’anno l’incremento del Pil non ha superato lo 0,8 per cento.
Male anche le esportazioni, a luglio in calo del 14,5 per cento sull’anno precedente, come pure l’import che si è ristretto del 12,8 per cento. Per stimolare l’economia, la banca centrale ha fornito risorse finanziarie al sistema creditizio per l’equivalente di circa 104 miliardi di dollari, la più generosa iniezione di liquidità dallo scorso marzo. Questa mossa potrebbe però pregiudicare l’azione a sostegno del renminbi, ai minimi sul dollaro Usa.
Statistiche vietate
Sempre più preoccupato, il governo ha intanto pensato bene di frenare anche in un altro modo le brutte notizie sull’economia cinese. Come? Semplice, nascondendo i dati. Martedì scorso le autorità di Pechino hanno infatti comunicato che non verranno più aggiornate le statistiche sulla disoccupazione giovanile, che ha ormai raggiunto un tasso del 21 per cento. Il problema riguarda soprattutto i giovani laureati, che in numero sempre maggiore non riescono a trovare un’occupazione adeguata. Ostacolare il più possibile la circolazione di notizie come questa dovrebbe servire a puntellare l’immagine di un paese che sta diventando sempre meno attrattivo per gli investitori stranieri.
Alla lunga, però, nascondere la polvere sotto il tappeto non contribuisce certo a risolvere i problemi e finisce per alimentare la diffidenza dei mercati finanziari.
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