- Da quando nel 2011 Marchionne decise di abbandonare lo stabilimento, Invitalia è stata incaricata di occuparsi della reindustrializzazione.
- A dieci anni di distanza restano seicento cassaintegrati e una missione fallita, tra innumerevoli finti capitani di imprese che hanno sfruttato l’ambizione di mantenere la produzione nel settore dell’auto.
- All’ultimo bando per il rilancio dello stabilimento si sono presentati in otto, il 9 settembre il governo dovrebbe dare qualche risposta, ma adesso sembra spingere per l’intervento di Fincantieri.
Ogni volta si sono illusi di aver trovato il cavaliere bianco, pronto a salvare la fabbrica di Termini Imerese e i suoi operai. Hanno incrociato invece improbabili gruppi automobilistici senza quattrini, imprenditori attirati solo dai fondi pubblici, mezzi truffatori. L’infinita crisi dell’ex stabilimento Fiat in Sicilia ha l’agrodolce sapore di una tragicommedia, dove ministri, sottosegretari, dirigenti di Invitalia annunciano di aver individuato finalmente la soluzione, credendo alle promesse di gruppi mai sentiti o dalla debolissima solidità finanziaria, mentre centinaia di lavoratori con le loro famiglie vedono le loro speranze spegnersi di fronte all’ennesimo bluff. Un copione fallimentare che si trascina ormai da dieci anni. Perché?
«Il problema è che finora tutte le proposte presentate erano singole e d’altra parte rispondevano alle aspettative locali, cioè dell’arrivo di un cavaliere bianco che salvasse l’impianto», sostiene Giancarlo Longhi, presidente di Smart city group, consorzio di imprese che ha presentato un progetto di rilancio per Termini Imerese. «Ma quale impresa oggi si prende in carico da sola una struttura di 42 ettari di cui 17 coperti e con oltre 600 persone in cassa integrazione da dieci anni?».
Alla vigilia dell’incontro con il governo previsto il 9 settembre per valutare un altro giro di manifestazioni di interesse, Ferdinando Uliano, segretario nazionale della Fim-Cisl, punta l’indice contro Invitalia e il ministero dello Sviluppo, incapaci finora di individuare degli acquirenti credibili pur avendo tutti i mezzi per scoprire eventuali magagne. E aggiunge: «Anche il sindacato ora accetta l’idea che ci siano più soggetti economici nel perimetro di Termini Imerese, e ritengo che aver inseguito il mito del salvatore proveniente dal settore dell’auto ci ha fatto sprecare tempo e perdere altre opportunità. Però attenzione: siamo disponibili a costruire un percorso per sviluppare delle piccole e medie aziende come prospetta Smart city, ma bisogna mettere in sicurezza i lavoratori che non possono perdere gli ammortizzatori sociali se la piccola impresa salta».
Da Annibale ad Agnelli
Lo sfondo di questo interminabile dramma è Termini Imerese, un comune di 25mila abitanti a una quarantina di chilometri a est di Palermo. Affacciato sul mare, ha un porto, una stazione ferroviaria ed è vicino all’autostrada. Le sue origini hanno radici profonde e gloriose: il suo nome deriva dalle parole terme e Imera, un fiume che scorre poco lontano. In quest’area dalla posizione strategica, protetta alle spalle dal Monte san Calogero, nel 648 avanti Cristo i greci fondarono una colonia chiamandola Himera. E prende questo nome la battaglia che i greci nel 480 a.C. vinsero contro i cartaginesi guidati dal generale Amilcare, vendicati poi nel 409 da suo nipote Annibale, che rase al suolo la città nemica.
Ed è qui, alla sinistra del fiume, che nel 1968 le ruspe iniziarono a preparare il terreno per il grande stabilimento della Fiat, un impianto che oggi occupa una grande area tra l’autostrada e il Tirreno. Si dice che l’idea di costruire una fabbrica di auto in Sicilia fu abbracciata da Gianni Agnelli grazie alle sollecitazioni di Mimì La Cavera, ex presidente della Confindustria siciliana. Ma c’era anche la pressione dei partiti di sinistra, che vedevano nel progetto industriale di Termini Imerese una soluzione al problema dell’emigrazione verso il nord. E di certo furono di grande aiuto i ricchi contributi della regione. Per portare a termine l’operazione, fu fondata nel 1967 una società mista, la Sicilfiat, controllata al 60 per cento dalla Fiat e al 40 per cento dalla regione Sicilia.
Il 19 aprile 1970 dai cancelli della fabbrica uscì la prima vettura, una fiammante 500. All’inizio nello stabilimento lavoravano 350 dipendenti, cresciuti a 1.500 nel 1977, quando la Fiat rilevò la totalità delle azioni. Dopo la 500 nell’impianto vennero prodotte altre vetture che hanno fatto la storia della casa torinese, come la 126, la Panda, la Punto, la Lancia Y. Nel 1983 la fabbrica-modello lavorava su tre turni, venivano prodotte più di mille Panda al giorno. E alla fine degli anni Ottanta l’occupazione raggiunse il picco di 3.200 lavoratori.
Poi dal 1993 il gruppo entrò in crisi e progressivamente il numero di occupati si ridusse per scendere nel 2001 a circa 1.500 operai. Secondo la Fiat i problemi di Termini Imerese erano due: la lontananza dai fornitori di componenti, localizzati nel Nord Italia, e la mono-produzione, cioè la dipendenza dai successi (e dagli insuccessi) del singolo modello prodotto. Tutti fattori che rendevano necessaria la chiusura della fabbrica, fissata dall’amministratore delegato Sergio Marchionne per il 2011. Lo stabilimento fu dismesso ufficialmente il 31 dicembre di quell’anno. Nel frattempo, il 5 febbraio 2010, ministero dello Sviluppo economico e regione Sicilia incaricarono la società statale Invitalia di avviare un progetto per attirare investitori interessati alla reindustrializzazione del sito con risorse pubbliche.
Progetti fantasma
A quasi dieci anni dalla chiusura una soluzione per Termini Imerese non è stata trovata, dopo una sfilza di tentativi andati a vuoto. Alcuni anche per i guai giudiziari dei loro patron, come nel caso di Gianluca Rossignolo della De Tommaso, del finanziere Simone Cimino, di Corrado Ciccolella, imprenditore dei fiori sotto inchiesta per utilizzo dei fondi Ue. Nel 2011 sembrava che al posto della Fiat potesse subentrare la Dr, piccola casa automobilistica fondata nel 2006 a Macchia d’Isernia, in Molise, da Massimo Di Risio. Il piano industriale presentato da Di Risio al ministro Corrado Passera e all’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri prevedeva la produzione di quattro modelli di auto, con l’inizio dell’attività nel 2013 con 10 mila veicoli per andare a regime nel 2017 con 60 mila vetture annue. Ma come poteva un’azienda che commercializzava poche migliaia di auto di origine cinese lanciarsi in un’avventura del genere? Una missione impossibile, tanto è vero che le banche si rifiutarono di finanziarie la società con i 100 milioni necessari per l’operazione. Fine del sogno Dr.
Un’altra manifestazione di interesse fu avanzata nel 2014 dalla Grifa-Gruppo Italiano Fabbriche Automobili, sostenuta da capitali brasiliani e pronta a costruire in Sicilia 35mila citycar a motore ibrido. Ma fu un buco nell’acqua: come ricorda Uliano, segretario nazionale della Fim-Cisl, «Grifa prevedeva di investire 350 milioni di euro in tre anni: 250 milioni di aiuti pubblici, messi sul tavolo da Mise e regione Sicilia e altri 100 milioni di tasca propria. Eppure, questi 100 milioni non ci sono mai stati. Il capitale sociale era pari a 25 milioni per altro non espressi da denaro contante, ma rappresentati dalle quote della Energy Crotone 1, società di Bolzano che doveva occuparsi di energia eolica. Peccato che l’ultimo bilancio depositato dall’azienda risalisse al 2007 e che dei famosi campi eolici non ci fosse traccia».
Insomma, un pasticcio che si conclude, anche grazie alle indagini del sindacato, con la scomparsa di Grifa dalla scena. Un accordo per i pre pensionamenti portò intanto i dipendenti dello stabilimento a circa 700, quelli dell’indotto da 500 a circa 300. Qualcosa di apparentemente più concreto si materializzò il primo gennaio 2015 quando lo stabilimento passò alla newco Blutec, società del gruppo Metec (produzione di componenti per auto) con il solito sostegno di Invitalia. L’allora vice ministro allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, definì la solidità industriale di Metec «fuori discussione».
Al ministero furono prospettati: la produzione di componentistica, l’elettrificazione del furgone Doblò, un accordo con la cinese Jac per la produzione di duemila auto elettriche, un accordo commerciale con Garage Italia per la produzione di veicoli elettrici; un accordo con Fiat-Chrysler per la produzione di batterie. Di tutto questo ben di dio non è stato fatto quasi nulla. Poi il crollo di Blutec: nel marzo del 2019 il presidente della società Roberto Ginatta e l’amministratore delegato Cosimo Di Cursi sono finiti agli arresti domiciliari per malversazione ai danni dello stato. La guardia di finanza ha sequestrato anche la fabbrica e 16 milioni di euro.
Ora la Blutec con lo stabilimento siciliano è guidata da un triumvirato di commissari straordinari: Filippo Bucarelli, Giuseppe Glorioso e Fabrizio Grasso. Alla ricerca di una soluzione per i 635 cassaintegrati di lungo corso a 900 euro al mese. Il 12 maggio 2021 è stato deciso un nuovo bando per il sito di Termini Imerese con lo scopo di attrarre investitori nell’area industriale.
Hanno risposto in otto. Tre manifestazioni di interesse sarebbero le più promettenti: una propone la produzione di tessuto non tessuto per mascherine sanitarie; un’altra la realizzazione di un Suv elettrico; e infine c’è il progetto di Smart city group, che prevede la partecipazione di più imprese a un rilancio dello stabilimento poggiando su tre pilastri: economia circolare, dal riciclo dei materiali alle energie rinnovabili e la produzione di idrogeno; nuovi prodotti come il grafene; un polo di ricerca in campo tecnologico con la partecipazione di varie università.
«Al consorzio», spiega Longhi, presidente onorario del Coripet ed ex direttore generale del Conai, «partecipano una quindicina di aziende e un fondo sino-canadese che si occupa di nuove tecnologie e ha partecipato al rilancio dell’area ex siderurgica di Bilbao». Longhi lamenta però i tempi-lumaca: «Abbiamo presentato la nostra proposta nel maggio di un anno fa. A livello politico non abbiamo mai incontrato alcun rappresentate istituzionale, solo un vicecapo di gabinetto del ministero dello Sviluppo. I commissari non sono stati particolarmente rapidi, ogni volta ci chiedevano qualcosa di nuovo, si inventavano che mancava qualcosa, mettevano in dubbio la nostra solidità finanziaria. Il risultato è che dopo più di un anno non abbiamo ancora avuto una risposta. Né positiva né negativa».
L’incontro per valutare le proposte è fissato il 9 settembre e ora il governo sembra spingere per l’intervento di un altro grande cavaliere di stato: Fincantieri. Intanto il tempo passa. E come denuncia l’Ansa, l’area davanti ai cancelli della ex Fiat di Termini Imerese è stata trasformata in una discarica.
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