Le notizie che arrivano dal paese più importante d’Europa non sono rassicuranti. Da un lato l’economia perde terreno, zavorrata da insufficienze strutturali. Dall’altro, le élites tedesche sono prigioniere di una dottrina ordoliberale che con le molte crisi degli scorsi lustri speravamo fosse stata abbandonata. L’inadeguatezza delle classi dirigenti tedesche non fa presagire nulla di buono per l’Europa
Le notizie recenti che provengono dalla Germania destano molta preoccupazione. L’economia tedesca è in recessione e, ancora più grave, l’andamento degli ultimi trimestri non fa che confermare una tendenza di lungo periodo. Con l’eccezione della Repubblica Ceca, la Germania è il paese dell’Unione europea che dal 2019 ad oggi ha fatto peggio in termini di crescita.
La recessione del 2020 causata dalla pandemia è stata molto meno violenta che in altri paesi, ma la ripresa in seguito è stata deludente, tanto che oggi il Pil tedesco è appena un punto percentuale al di sopra dei livelli pre pandemia (in Italia sono tre). L’economia tedesca è oggi afflitta da molti problemi, tanto da spingere The Economist a riesumare una copertina che aveva fatto scalpore nel 1999, che definiva la Germania «L’uomo malato d’Europa».
Secondo il settimanale britannico i motivi sono cambiati (all’epoca sul banco degli imputati erano un mercato del lavoro sclerotico, i disavanzi con l’estero e il peso della riunificazione, mentre oggi il problema è l’eccessivo peso della burocrazia e l’incapacità di adattare il proprio modello produttivo al mondo di oggi), ma come allora senza riforme profonde la Germania non riuscirà a ripartire.
La seconda notizia è un articolo per Der Spiegel in cui il ministro delle finanze tedesco Christian Linder prende posizione nel dibattito sul “freno al debito” (Schuldenbremse), la norma introdotta in costituzione nel 2009 per limitare i disavanzi sia dello stato federale che dei Länder. A chi in Germania chiede di riconsiderare questa norma, che limita di molto lo spazio di manovra e la capacità di investimento pubblico, Lindner risponde in primo luogo che il freno al debito garantisce la disciplina fiscale e quindi consente di proteggere da un lato le generazioni future e dall’altro lo spazio di manovra in caso di crisi; poi, che la norma obbliga il governo a chiarire le proprie priorità, eliminando la spesa inutile e concentrandosi sull’investimento (incidentalmente Lindner sostiene, contro l’opinione della maggioranza degli economisti, che gli investimenti necessari alla Germania dovrebbero venire principalmente dal settore privato).
Infine, anche in questo caso andando contro le opinioni prevalenti, Lindner sostiene che il freno al debito limita i rischi fiscali e quindi la sostenibilità futura; questo secondo il ministro favorisce anche la transizione ecologica, per cui è più importante incentivare la concorrenza e l’innovazione che spendere.
Lindner non si rivolge solo al pubblico tedesco, ma parlando a nuora perché suocera intenda, manda anche chiarissimi segnali ai partner europei nel momento in cu entra nel vivo il dibattito sulla riforma delle regole europee.
La terza notizia è che la Corte Costituzionale tedesca ha cassato la decisione del governo tedesco di utilizzare parte dei fondi stanziati per il contrasto al Covid e inutilizzati (circa 60 miliardi) per finanziare il Fondo per la Trasformazione e il Clima. La Corte ha così messo fine, con conseguenze imprevedibili sulle finanze pubbliche tedesche, a una propensione dei governi recenti alla contabilità creativa.
Ordoliberalismo
Presi insieme, l’articolo e il pronunciamento della Corte danno un quadro fedele della visione del mondo che ancora oggi prevale tra le élite tedesche. La Germania ha una tradizione di politica economica peculiare, che la differenzia sia dal liberalismo di stampo anglosassone, sia da sistemi socialdemocratici.
Un primo nucleo di pensiero liberale tedesco, successivamente chiamato ordoliberalismo, si forma solo nel primo Dopoguerra del secolo scorso, attorno a Walter Eucken, economista di Friburgo praticamente sconosciuto altrove ma ancora oggi estremamente influente in Germania. Di fronte al caos dell’iperinflazione del 1923, e poi della crisi del 1929, la Scuola di Friburgo professa la propria diffidenza nei confronti del Laissez Faire, senza però abbracciare l’economia pianificata. Schematizzando, contrariamente alla tradizione liberale anglosassone, incentrata sull’homo œconomicus, l’ordoliberalismo antepone l’interesse collettivo a quello individuale. Eucken propugna uno Stato forte che stabilisce delle regole e le fa rispettare, senza tuttavia sostituirsi al settore privato nella produzione di ricchezza.
La stabilità dei prezzi, la frugalità della politica di bilancio, la grande importanza attribuita ai corpi intermedi nel definire e far rispettare le regole, sono tutte parti integranti di un’economia sociale di mercato in cui ogni attore economico, compresi i poteri pubblici, deve essere messo in condizione di non nuocere all’interesse collettivo. L’economia sociale di mercato, insomma, non ha nulla a che vedere con il liberalismo individualista anglosassone né con le politiche attive di stampo keynesiano, che Eucken e i suoi discepoli osteggiano con ferocia.
Le ultime settimane ci consegnano insomma un quadro preoccupante, di un paese con un’economia avvitata su sé stessa e prigioniero di una dottrina ordoliberale chiaramente incapace di integrare le lezioni delle molte crisi degli ultimi lustri e inadeguata a rispondere alle sfide dei prossimi anni.
Il malato
Perché, se è vero che la Germania è l’uomo malato d’Europa, non è certo per le ragioni evocate dall’Economist. Il Diario Europeo del 16 luglio scorso aveva già evidenziato lo stato disastroso delle infrastrutture tedesche, il risultato di anni di masochistica frugalità pubblica che oggi costituisce un freno anche all’investimento privato. Un interessante articolo di Peter Bofinger, pubblicato in traduzione dal Menabò di Etica ed Economia, va ben oltre, evidenziando come negli scorsi anni imprese e governo siano stati illusi dall’apparente successo della macchina da esportazioni tedesca, senza capire che senza una profonda ristrutturazione il sistema produttivo si sarebbe prima o poi trovato in difficoltà. Ne è un esempio il settore automobilistico, fino a poco fa fiore all’occhiello dell’industria esportatrice tedesca e oggi in ritardo abissale nella transizione all’elettrico, per la quale le case automobilistiche tedesche sono diventate dipendenti dalle importazioni (di tecnologie avanzate!) dalla Cina.
La conclusione di Bofinger è assolutamente condivisibile: fintanto che le élite tedesche si ostineranno a vedere lo stato come una fonte di problemi (quindi da imbrigliare quanto più possibile in una rete di regole rigide, nazionali ed europee) e non come uno degli attori necessari per favorire la transizione verso un’economia moderna, la Germania rimarrà “malata”. E il resto d’Europa con lei. Wir sind alle Berliner.
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