Con la presentazione della Nadef e alla vigilia della legge di bilancio, della decisione sulla ratifica del Mes e della riforma del Patto di Stabilità, si guarda allo “spread”, ovvero il differenziale di rendimento tra il titolo di stato decennale italiano e quello tedesco, come misura della fiducia degli investitori nella capacità del governo di assicurare la sostenibilità del debito pubblico.
Che abbia superato i 200 punti preoccupa, ma non è oggi la variabile più significativa per misurare il rischio finanziario a cui è esposta l'Italia: senza voler minimizzare la rilevanza dei movimenti dello spread, si potrebbe argomentare che è al livello dell’agosto 2022, quando pesava l’incertezza legata alle elezioni politiche, e inferiore ai 250 punti toccati con la formazione del nuovo governo.
Più che lo spread, il vero segnale di allarme viene dal forte incremento dei tassi a lungo termine nel mondo, saliti a livelli che non si vedevano da 15 anni: se restassero così elevati a lungo potrebbero provocare shock finanziari che colpirebbero chi è più indebitato e non ha in atto una politica credibile per ridurre il debito: il caso dell’Italia.
Se lo spread è ai livelli dell’agosto scorso, il rendimento sul decennale è invece aumentato di 2 punti percentuali fino a sfiorare il 5 per cento, salendo in parallelo con gli analoghi titoli tedeschi. Per stabilire la sostenibilità di un debitore si guarda al costo degli interessi in rapporto alle sue entrate: se tipicamente il rapporto supera il 10 per cento, il debitore rischia di perdere il rating investment grade (la tripla B), soprattutto se le prospettive di crescita delle entrate sono incerte.
Basandosi sulla Nadef, la spesa prevista per gli oneri di interesse rispetto alle entrate tributarie (al netto dei contributi sociali a cui corrisponde una ricchezza pensionistica attesa) è previsto al 14,5 per cento del 2024 e in salita al 16 per cento del 2026; anche includendo tutte le entrate correnti, il rapporto sale al 10 per cento nel 2026.
Tenuto conto che la previsione del Nadef sulle entrate si basa su un ritorno alla crescita nel 2025 e 2026, tutt’altro che scontata, non è irragionevole temere che il nostro debito sia a rischio di declassamento. I timori del mercato vanno visti non solo alla luce delle politiche di bilancio del governo, ma anche dello scenario per i tassi.
Le banche centrali hanno causato un rapido aumento dei tassi in chiave anti inflazionistica, che però ha interessato quelli a breve, mentre quelli a lunga sono stati frenati dall’aspettativa che l’inflazione tornasse rapidamente al 2 per cento, e quindi la stretta monetaria di breve durata. Così la curva dei tassi, in euro come in dollari, si è inizialmente invertita, con i rendimenti a breve più alti di quelli a lungo termine.
Negli ultimi tempi però, nonostante Federal Reserve e Bce abbiano lasciato intendere di aver completato la fase degli aumenti, e l’inflazione sia ovunque in rapida discesa, i rendimenti a lungo termine hanno continuato a salire: sono quindi i tassi reali, quelli cioè al netto dell’inflazione, che sono storicamente elevati, e ci si aspetta che lo rimangano a lungo. In poco più di un anno quelli reali a 10 anni sono passati infatti da -2 per cento allo 0,5 in Germania, e da -1 a 2,45 negli Usa.
La dichiarata volontà delle banche centrali di mantenere tassi elevati più a lungo del previsto ha certamente contribuito, ma la causa principale dell’aumento dei tassi reali risiede nel timore che il mercato abbia difficoltà ad assorbire l’elevata offerta di debito pubblico a lungo termine da parte degli Stati, necessaria a rifinanziare l’enorme quantità di titoli emessi per fronteggiare la pandemia, oltre a dover finanziare la transizione ambientale e la crescente domanda di welfare e di spese militari; proprio nel momento in cui le banche centrali riducono gradualmente i titoli acquistati con il quantitative easing.
Tassi reali elevati a lungo termine impongono alle imprese una maggiore redditività sui nuovi investimenti, e agli Stati una maggior crescita per rendere sostenibile il debito.
Nel caso italiano, oltre allo scenario avverso dei tassi, la sostenibilità del debito è minata dall’incapacità di crescere: i tassi reali a lungo termine sui nuovi titoli di stato italiani sono oggi il doppio della crescita prevista da Nadef nel triennio.
Il confronto
A questo si aggiunge il mancato controllo sulla crescita della spesa pubblica corrente. Molto eloquente il confronto dello spread italiano con quello degli altri paesi dell’area Euro. Oggi è il più alto: 200 punti, contro i 140 della Grecia, 112 della Spagna, 73 del Portogallo, e 44 dell’Irlanda. Paesi non scelti a caso, perchè sono quelli che al picco della crisi del debito del 2012 avevano uno spread molto più alto dei nostri 540 punti: 602 l’Irlanda, 630 la Spagna 1.026 il Portogallo e ben 2.613 la Grecia. Tutti paesi che, nonostante la stringente austerità imposta a suo tempo in cambio dell’aiuto finanziario (e la ristrutturazione del debito greco), sono riusciti a porre le finanze pubbliche su di un sentiero di sostenibilità, e possono quindi affrontare l’attuale tempesta con più gradi di libertà.
In Italia invece la dinamica della spesa pubblica è stata condizionata dalla continua concessione di bonus, sussidi, sgravi, agevolazioni, incentivi a cittadini e imprese.
Le 626 tax expenditure riportate nel Nadef quest’anno ci costano 82 miliardi: un buco più grande dell’evasione fiscale che, sempre nel Nadef è scesa dai 98 miliardi del 2017 ai 76 del 2020 (complice anche la caduta delle attività per via del Covid).
Un costo insopportabile a cui questo Governo non intende porre mano, come per l’evasione, se non con dichiarazioni di principio. E mentre oggi il Portogallo è capace di mettere sul mercato all’asta il suo 51% nella linea aerea TAP, l’Italia ha impiegato anni per, forse, vendere il 40 di Ita a Lufthansa, agonizza sulla possibile cessione del 10 in Mps, e dopo Autostrade e la Popolare di Bari vuole comperarsi anche la rete di Tim.
Nonostante l’austerità imposta nel 2012, i paesi allora in crisi non solo hanno raggiunto una migliore stabilità finanziaria, come dimostra lo spread, ma rispetto all’Italia hanno anche avuto un decennio di maggior crescita: dal 2012 il Pil Italiano è infatti cresciuto complessivamente di appena il 5,6 per cento, contro il 15 della Spagna, il 17,4 del Portogallo, il 134 dell’Irlanda, il 6,5 della Grecia e il 14,3 in media dell’Eurozona. La politica dell’austerità è stata un errore, ma non è quella la causa della nostra stagnazione se perfino la Grecia ha avuto una performance migliore della nostra.
Il programma peggiora le cose
Di fronte allo scenario avverso dei tassi e all’incapacità di crescere e di riformare la spesa pubblica, il governo ha presentato un programma finanziario che peggiora la dinamica dei conti per il 2024, non solo rispetto al DEF di marzo, ma anche al tendenziale dello stesso Nadef.
L’avanzo primario (ricavi meno spese correnti prima degli interessi) dello 0,3 per cento del Pil del DEF, aumenta allo 0,6 nel tendenziale, per poi cadere a -0,2 con gli interventi programmati dal Governo. Stessa dinamica per il disavanzo: -3,7 nel DEF, -3,6 nel tendenziale, -4,3 nel programma del Governo. Invece di invertire la rotta per meglio affrontare la tempesta, ci rendiamo ancora più vulnerabili.
Illusorio infine contare sugli acquisti della Bce per prevenire un’eventuale crisi, visto che ha già cominciato a vendere 25 dei 701 miliardi di Btp che deteneva. E si comincia a discutere il rinnovo dei titoli in scadenza previsto dal programma PEPP. Semmai la Bce potrà intervenire, ma solo qualora una crisi avrà messo a rischio l’Euro. Anche le banche stanno riducendo i loro titoli di stato.
Rimangono i risparmiatori italiani che in un anno ne hanno comperati 113 miliardi, ma arrivando a detenere il 10 per cento del debito, troppo poco per arginare la valanga nel caso di una crisi. Questi i dati di fatto.
Additare il complotto dei poteri forti, lo spettro del governo tecnico, riesumare la caduta di Berlusconi, andare allo scontro con Bce e Commissione Europea, serve solo a rimarcare la debolezza e inadeguatezza di questo governo, aumentando l’eventualità di una crisi. Purtroppo, il conto lo pagheremmo noi cittadini.
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