- In futuro, chi guarderà alla situazione dell’economia di oggi potrà dire con Dickens, «Era il tempo migliore e il tempo peggiore». La maggior parte degli economisti ritiene inevitabile una recessione, prezzo da pagare per abbattere stabilmente l’inflazione
- Opinione non condivisa dagli investitori, che sembrano avere fiducia nel fatto che l’inflazione possa essere vinta anche senza recessione, il soft landing.
- Intanto, la fine delle restrizioni anti Covid non basta a far riprendere Pechino. Su cui pesa ancora lo shock immobiliare
In futuro, chi guarderà alla situazione dell’economia di oggi potrà dire con Dickens, «Era il tempo migliore e il tempo peggiore». È difficile trovare un periodo con una così forte dicotomia tra chi, prevalentemente economisti, ritiene inevitabile una recessione, prezzo da pagare per abbattere stabilmente l’inflazione, e chi invece, prevalentemente investitori, crede che l’inflazione possa essere vinta anche senza recessione, il soft landing.
Chi ha ragione? Dovessi scegliere, direi che hanno ragione gli investitori.
Il calo
Negli Stati Uniti, a giugno l’inflazione è calata al 3 per cento, meglio delle attese. Il dato sarebbe distorto dalla caduta dei prezzi dell’energia che avevano toccato un picco 12 mesi fa, ma anche stando all’indice depurato di energia e alimentari, la discesa è acclarata, anche se su livelli più elevati.
Questo dato è però distorto dal costo degli affitti (30 per cento dell’indice), in quanto solo un sesto viene campionato ogni mese e ci vogliono dunque sei mesi per avere la misura esatta del loro andamento. Inoltre contiene gli affitti «figurati», quelli che un proprietario avrebbe pagato se vivesse in un immobile in affitto: se il dato americano fosse ricalcolato con la metodologia europea, che li esclude, sarebbe sotto al 3 per cento. Come lo è già in alcune città, e se misurata sui prezzi alla produzione.
Le aspettative di inflazione sono ben ancorate; e l’insistenza sul potenziale inflazionistico della crescita dei salari e della bassa disoccupazione non convince perché il potere di acquisto dei redditi da lavoro è stato falcidiato dall’inflazione, frenando la domanda senza il bisogno di ulteriori strette, e la bassa disoccupazione è legata a cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro a seguito del Covid. Il tasso reale dei titoli indicizzati è già oltre il 2 per cento, per cui ci si attende per fine luglio l’ultimo degli aumenti della Fed.
La recessione che non c’è
Il rientro dell’inflazione è quindi avviato, ma nulla fa presagire una recessione. Gli utili attesi per quest’anno sono stati complessivamente rivisti al ribasso dell’11 per cento, ma da livelli elevati di redditività del capitale, non certo da pregiudicare gli investimenti; i tassi di insolvenza sono storicamente bassi, tranne che nell’immobiliare ad uso commerciale; l’indice di fiducia dei consumatori è in ripresa, come mostrano anche i dati sul credito al consumo; e dopo i fallimenti di marzo è rientrato il rischio di una crisi bancaria. Ma poiché le recessioni non arrivano all’improvviso, per gli investitori la probabilità di un soft landing è aumentata, e la Borsa è tornata a salire.
Secondo un recente sondaggio, però, la maggioranza degli economisti continua a prevedere una recessione.
Una possibile spiegazione è che i modelli usati facciano necessariamente riferimento agli anni Ottanta, ultimo episodio di disinflazione, anche se la struttura dell’economia nel frattempo è cambiata. Un’altra è che, una volta arrivata intorno al 3 per cento, l’inflazione si stabilizzi; e la Fed, per raggiungere l’obiettivo del 2, porti i tassi reali a un livello tale da causare una recessione. Non lo credo probabile nell’anno delle elezioni presidenziali.
Ragionamento analogo per l’Eurozona. L’inflazione a giugno, al 5,5 per cento era più elevata che negli Usa, ma in netta discesa e dimezzata rispetto a ottobre; la riduzione della componente energetica contribuirà alla discesa nei prossimi mesi, e la forte crescita di alcuni prezzi come quelli dei biglietti aerei, ospitalità e ristorazione, sono una coda del cambiamento dei comportamenti indotto dal Covid e destinati a esaurirsi.
Misurata coi prezzi alla produzione l’inflazione è negativa; in Spagna è già al 2 per cento, e la Germania in recessione. Le aspettative sono ben ancorate; e sbagliato guardare alla crescita dei salari nominali per valutarne l’impatto inflazionistico: quello che conta è il loro potere di acquisto, che è falcidiato, di per sé un elemento deflattivo. Dovrebbe venir meno il sostegno degli aiuti fiscali legati alla crisi energetica, come sembra sia stato deciso all’Ecofin. Per molti, dunque, quello di luglio dovrebbe essere l’ultimo aumento dei tassi anche per la Bce.
Non è così scontato però: ma aumenti ulteriori a settembre, e oltre, aumenterebbero seriamente il rischio di recessione per l’intera Eurozona in concomitanza con le elezioni europee. Poco probabile per gli investitori, che anche in Europa comprano azioni, convinti del soft landing.
La Cina non è così lontana
Ci si aspettava che l’economia cinese sarebbe tornata a correre dopo l’abolizione delle restrizioni per il Covid, spinta da una domanda interna a lungo repressa. Aspettative deluse: i dati restituiscono il quadro di un’economia in crisi. Le esportazioni, tradizionalmente un motore della crescita, a giugno hanno fatto registrare un calo di oltre il 12 per cento, il peggiore dal picco della pandemi.
Inoltre, anche le importazioni sono crollate di quasi il 7 per cento, segno la domanda interna di consumi e di energia, di cui l’economia cinese ha bisogno, sono in contrazione. L’onda lunga della crisi immobiliare continua, con le vendite di case a giugno in caduta di quasi il 30 per cento e il tasso di insolvenza delle obbligazioni high yield emesse da società immobiliari stimato per quest’anno al 20 per cento. E gli enti locali, sulle cui finanze pesa il crollo del mattone, affogano nel debito.
Da aprile l’indice dell’attività economica segna contrazione. A giugno l’inflazione era nulla, addirittura negativa quella al netto di alimentari ed energia, e di oltre il 5 per cento la caduta dei prezzi alla produzione. Tutto questo anche se lo stock di moneta sta crescendo a doppia cifra, dato che i cinesi, di fronte all’incertezza economica, preferiscono accumulare depositi in banca invece di spendere. La caduta dell’inflazione ha poi aumentato i tassi reali (3,5 per cento a un anno), accentuando l’impatto recessivo.
Le ragioni
La Cina sta quindi mostrando segni di un’economia da deflazione post crisi immobiliare: l’esperienza giapponese e quella americana del 2008 insegnano che per superarla ci vuole molto tempo. La leva fiscale è stata usata per investimenti pubblici, mentre in questi casi è efficace se indirizzata a sostenere i redditi e i consumi delle famiglie, perché c’è un eccesso di risparmio precauzionale, non una carenza di risorse per finanziare gli investimenti.
A questo si aggiungono due elementi strutturali di crisi: il primo è l’inversione di marcia del processo di integrazione economica e finanziaria con l’occidente, che appare ormai irreversibile, ma che invece era stato uno degli elementi cruciali dietro il miracolo Cinese.
C’è poi il rapido invecchiamento della popolazione, unito a una disoccupazione giovanile al 21 per cento che supera perfino il triste record del nostro paese, ed entrambi causa dell’aumento del risparmio privato.
Cosa c’entra con noi
Perché ci dovrebbe interessare? Per almeno due ragioni. Il rallentamento strutturale cinese fa venire meno un importante mercato di sbocco per i prodotti europei, basti pensare ad auto, lusso, e impiantistica.
Allo stesso tempo, la carenza di domanda interna porterà la Cina a puntare alla crescita per via esterna, inondando l’Europa dei beni in forte domanda come, per esempio, quelli legati al Green Deal.
L’avanzo commerciale cinese con l’Europa è così passato da una media di 150 miliardi negli 8 anni pre Covid, ai 400 del 2022. Di fatto la Cina cercherà di esportare la deflazione e non è un caso che la Germania, che più di tutti ha fatto affidamento sull’export verso la Cina, sia oggi in recessione tecnica.
La seconda ragione è il lento ma graduale spostamento delle filiere produttive via dalla Cina, per limitare il rischio geopolitico, accorciare le filiere e de-globalizzare.
Tutto questo farà lievitare i costi di produzione, causando a propria volta un aumento strutturale dell’inflazione a casa nostra. La Cina è vicina.
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