- Tra marzo e metà novembre la ricchezza di 647 miliardari americani è cresciuta di mille miliardi di dollari. Quella di Jeff Bezos è passata da 113 a 183 miliardi di dollari.
- Non tutte queste ricchezze sono però uguali. Alcune nascono da forme di potere che mal si conciliano con un capitalismo ragionevolmente concorrenziale e con una società davvero liberale.
- La politica si è infilata nella trappola dello sgocciolamento, il principio per cui la ricchezza si tradurrebbe in un beneficio anche per i più svantaggiati e su questa base sono stati anche invocati tagli di imposte per i più ricchi.
Ci sono dati che impressionano. Uno di questi è la stima dell’aumento della ricchezza posseduta da 647 miliardari americani tra metà marzo e metà novembre, cioè nel pieno della pandemia. Si tratta di circa mille miliardi di dollari, dunque in media più di 15 miliardi per ognuno dei 647. Ma per colui che è considerato l’uomo più ricco del mondo, Jeff Bezos, l’incremento sembra assai maggiore: da circa 113 a circa 183 miliardi di dollari.
Tutto ciò può indignare, può apparire pericoloso oppure del tutto normale e perfino benefico. Ma prima di decidere come schierarsi sarebbero forse utili alcune considerazioni sui meccanismi che favoriscono questi straordinari arricchimenti e sulle loro possibili conseguenze.
Potere di mercato e potere contrattuale
La ricchezza di Bezos (ma ciò vale anche per una gran parte dei 647) cresce perché cresce il valore di Borsa dell’impresa di cui è il principale azionista. E quel valore di Borsa cresce perché la quota di mercato di Amazon cresce – grazie alle dislocazioni prodotte dalla pandemia più che per qualche merito – e l’aspettativa è che continuerà a crescere; questa aspettativa si fonda, a sua volta, sull’enorme quota di mercato controllata da Amazon che barriere visibili e invisibili di varia natura mettono largamente al riparo da possibili concorrenti.
Un ulteriore contributo viene certamente anche dalla profittabilità di Amazon che è in crescita ma lo è anche grazie ai bassi salari. Dunque potere di mercato e potere contrattuale nei confronti dei lavoratori sono alla base di questi arricchimenti, due poteri che in vario modo stanno attraendo crescente attenzione.
Come ha notato Franco Debenedetti su Domani del 21 novembre l’aumento del valore di Borsa di Amazon non beneficia solo Bezos ma anche tutti gli altri azionisti – che in genere fanno parte della metà più ricca della popolazione. Si potrebbe aggiungere che ne beneficiano, attraverso le stock option, anche i top manager di quelle imprese.
Tutto ciò non significa, però, che nessuno sia in qualche modo svantaggiato da questi arricchimenti. Perdono i salariati che potrebbero ricevere un reddito maggiore e, ricevendolo, attenuerebbero i guadagni di Borsa; perdono gli imprenditori del commercio tradizionale che vedono cadere i loro ricavi e i loro profitti. Ma al di là di queste osservazioni il punto più importante è che, anche indipendentemente dalla sua altezza, la ricchezza può essere “buona” o “cattiva”. Quasi come il debito pubblico.
La ricchezza “cattiva” è quella che nasce dal godimento di posizioni sottratte alla concorrenza, da privilegi non giustificabili, da istituzioni che premiano altro che il “merito”, per quanto genericamente inteso. In breve, si tratta della ricchezza che nasce da forme di potere che mal si conciliano con un capitalismo ragionevolmente concorrenziale e con una società davvero liberale.
Desumere, per differenza, quando la ricchezza si può considerare “buona” non dovrebbe essere difficile. Peraltro, se la ricchezza fosse soltanto “buona” molto difficilmente si raggiungerebbero i livelli di concentrazione nella sua distribuzione che oggi prevalgono in molti paesi.
Questa distinzione è tutt’altro che usuale e ciò non soltanto agevola contrapposizioni sterili ma limita anche la possibilità di disegnare interventi redistributivi ragionevoli.
Solo la povertà è un problema?
Non è facile a dirsi perché la ricchezza venga trattata come se fosse una grandezza omogenea, e come se fosse l’esito di processi a loro volta omogenei e nei quali il vincitore è sempre il più “meritevole” nella gara di mercato e nulla si deve dire sull’altezza del premio che ottiene rispetto agli altri partecipanti alla gara. Ma forse un non irrilevante contributo lo ha dato una convinzione diffusasi qualche decennio fa, anche tra i partiti di sinistra. Si tratta della convinzione che solo la povertà è un problema.
Naturalmente la povertà è un problema, un enorme problema. Ma anche la ricchezza può essere un problema, certo non per i ricchi ma per il suo legame con il funzionamento complessivo dell’economia, della società e della politica.
Quella convinzione venne espressa a livello internazionale anche da esponenti politici socialdemocratici meritevoli della massima considerazione e fatta propria dalla sinistra italiana. Significativo è che nella campagna elettorale del 2001 Tony Blair abbia avvertito l’esigenza di affermare «la giustizia per me è soprattutto far crescere il reddito di coloro che non hanno un reddito decente. Non è una mia sfrenata ambizione fare in modo che David Beckham guadagni meno».
Sulle ragioni di queste prese di posizioni possono formularsi diverse ipotesi. Ma una di esse potrebbe consistere nella fiducia riposta nel meccanismo ancora oggi invocato a difesa della ricchezza, a cui è stato dato il nome di trickle-down (sgocciolamento).
In virtù di questo meccanismo la ricchezza si tradurrebbe in un beneficio anche per i più svantaggiati e su questa base sono stati anche invocati tagli di imposte per i più ricchi. La solidità teorica di questo meccanismo non è stata dimostrata e sostanzialmente è sempre vero che se migliora la posizione di qualcuno – ricco o povero – nella società anche altri potranno trarne vantaggio.
D’altro canto, mancano prove empiriche che quando si aumenta la disuguaglianza dando più ai ricchi di norma si innesca un processo che porta a un livello di disuguaglianza inferiore di quello di partenza. La tendenza è tutt’altra. Insomma è bene non fidarsi del trickle-down.
Questo atteggiamento di tolleranza universale nei confronti della ricchezza ha contribuito non soltanto a far apparire come problematica unicamente la povertà ma anche a disarmare la politica nei confronti della ricchezza “cattiva” che è tale non soltanto quando nasce male, se si può usare questa espressione, ma anche quando viene usata per condizionare le decisioni politiche e per perpetuare se stessa.
Mentre sembra nuovamente riscaldarsi il dibattito sulla patrimoniale, che ci auguriamo meno ideologico e confuso che in passato, forse può essere utile – recuperando un po’ del terreno perduto – tenere presente che, come molte altre cose, anche le ricchezze non sono tutte uguali, talvolta non lo sono anche quando la loro altezza è uguale, e possono essere, se “cattive”, molto dannose per l’economia, la società e la democrazia.
Spesso si cita questa folgorante affermazione di Louis Brandeis che risale al 1916: «Possiamo avere la democrazia oppure possiamo avere la ricchezza concentrata in poche mani. Ma non possiamo avere queste due cose assieme». Sì, soprattutto se la ricchezza è “cattiva”.
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