Il 2020 è stato un anno a due facce: da una parte la pandemia ha significato il trionfo delle tecnologie digitali, dall’altra c’è chi come Amazon ha guadagnato molto di più degli anni passati con profitti gonfiati dalla pandemia. Per tutti dopo il crollo di marzo i ricavi hanno ricominciato a correre compensando quasi sempre le perdite. Ma è stato anche l’anno in cui sono stati messi sotto accusa a casa loro, negli Stati Uniti, con una svolta politica e culturale che rischia di essere il sorpasso sull’Unione europea.
- Per i giganti del digitale il 2020 è stato un anno a due facce: c’è chi come Amazon ha guadagnato molto di più degli anni passati con profitti gonfiati dalla pandemia. Per tutti dopo il crollo di marzo i ricavi hanno ricominciato a correre compensando quasi sempre le perdite.
- Ma è stato anche l’anno in cui i 4 big four – Amazon, Google, Apple e Facebook – sono stati accusati formalmente di potere di monopolio e hanno combattuto una battaglia di lobbying sulle nuove regole europee.
- Google è stato denunciato in tribunale da dieci stati americani. E per la prima volta una authority antitrust tiene in sospeso una acquisizione che potrebbe mettere in mano a big G anche i dati biometrici. Un anno insomma che potrebbe cambiare la storia. Anche per loro.
Facebook e Google si sono accordate per non pestarsi i piedi e rispettare l’una la posizione dominante dell’altra. Questa è solo l’ultima notizia - emersa nella causa intentata contro Google da dieci stati americani – di una lunga serie di vicende che hanno fatto del 2020 l’anno d’oro e assieme l’anno nero delle Big tech. D’oro per i profitti gonfiati da una pandemia che è stata il trionfo delle tecnologie digitali, nero perché i grandi monopolisti della nuova economia sono stati infine riconosciuti come tali a casa loro, negli Stati Uniti, con una svolta politica favorita dall’amministrazione Trump uscente che rischia di lasciare indietro l’Unione europea, finora affermatasi come il regolatore globale del digitale. E che sta cambiando profondamente la geopolitica del digitale.
Una V assimetrica
Per le società del digitale la crisi del 2020 è stata una V assimetrica, una caduta profonda a marzo e poi una lunga ripresa in accellerazione. Alla fine del primo trimestre, le azioni di Alphabet (la società di Google), Amazon, Facebook, Microsoft, solo per fare un esempio, sembravano seguire il destino delle borse crollate sotto la pandemia globale e i suoi effetti sull’economia. Una battuta d’arresto nella corsa dei guardiani del mondo digitale, che però da aprile hanno ripreso a correre più di prima, in diversi casi più degli anni passati. La corsa più rapida è stata quella di Amazon: dall’inizio dell’anno a oggi le azioni dell’ipermercato globale sono cresciute da 1,79 a 3,2 dollari, un’impennata del 56 per cento. Gli ultimi dati disponibili sul fatturato, quelli del terzo trimestre, segnano un aumento di oltre il 37 per cento sul 2019, il maggiore degli ultimi quattro anni.
Bezos oltre il muro dei 200 miliardi
Ad agosto Forbes e Bloomberg hanno confermato il primato di Jeff Bezos come uomo più ricco del mondo: l’ultra miliardario americano ha oltrepassato il muro dei 200 miliardi di patrimonio personale. Facebook in confronto è cresciuta “solo” del 21 per cento: più che nel 2019 ma non il suo record storico. Il giro di affari di Alphabet è stato inferiore degli anni passati, ma si è ripreso nel terzo trimestre con un’impennata dei ricavi di Youtube. Microsoft è riuscita ad aumentare i ricavi rispetto all’anno passato grazie soprattutto alla crescita del cloud: le entrate di Microsoft Azure sono cresciute del 60 per cento. Al di là dei numeri dell’anno, alcuni cambiamenti potrebbero essere qui per restare: il primo dicembre il per esempio il Wall Street Journal ha annunciato che per la prima volta nella storia il digitale ha raccolto metà degli investimenti pubblicitari di tutto il mercato americano.
La svolta statunitense
Il 2020 però è stato anche l’anno in cui il Congresso ha formulato accuse precise contro i Gafa – Google, Amazon, Facebook, Apple o «gli imperatori dell’economia online» come li ha chiamati David Cicillin, il presidente della sottocommissione antitrust della Camera dei rappresentanti che ha condotto una indagine di un anno su 1,3 milioni di documenti compresi quelli interni. A ottobre i deputati hanno concluso che quello delle quattro big è un potere di monopolio che ha portato «meno innovazione, meno scelte per i consumatori e una democrazia indebolita» Le aziende hanno protestato snocciolando cifre che mostrerebbero i loro benefici all’ecosistema dell’innovazione. Ma negli Stati Uniti le azioni contro il potere dei nuovi oligopoli si sono moltiplicate.
Chiamati in tribunale
A un possibile intervento del potere politico, stretto tra gli equilibri precari del Congresso e una amministrazione entrante, quella di Biden, vicina al mondo della Silicon Valley, si iniziano ad aggiungere le cause giudiziarie contro le “big four”. In quella intentata da dieci stati americani contro Google per abuso di posizione dominante nel mercato della pubblicità online si legge che Google e Facebook si sono alleate per non pestarsi i piedi. Nel testo che Domani ha letto si dice che nel 2017 Facebook aveva fatto sapere a Google di essere pronta a competere con Google nel mercato degli annunci pubblicitari per poi vedersi offrire condizioni privilegiate “dando a Facebook informazioni, velocità e altri vantaggi nelle aste che Google indice ogni mese negli Stati Uniti per app mobile degli editori. L’accordo secondo l’accusa sarebbe nientemeno che una “manipolazione delle aste” e “sarebbe stato firmato al più alto livello”. Google ha dichiarato tutte le accuse infondate. Ma la verità è che gli Stati Uniti stanno riscoprendo la necessità degli interventi antitrust nel senso originale del termine: quello di rompere i monopoli.
Il rischio di sorpasso
L’Unione europea che finora era stata il campione della regolamentazione del digitale rischia di trovarsi inaspettatamente indietro. Il 15 dicembre dopo mesi di attesa i due commissari Thierry Breton e Margrethe Vestager hanno presentato due proposte di legge – il Digital market acts e il Digital services Act - che avrebbero dovuto finalmente riparare al difetto principale della attuale legislazione sulla concorrenza: arrivare troppo tardi. Formalmente ha vinto l’approccio più politico di Breton – il Digital Markets Act, infatti, prevede la possibilità di imporre dei “rimedi strutturali” - politicamente ha vinto quello più formale di Vestager - visto che i rimedi potrebbero essere applicati solo in caso di inadempienze alle regole della concorrenza ripetute in un certo arco di tempo. Se ci sarà mai la divisione di Google invocata anni fa da una risoluzione del parlamento europeo sarà tra dieci anni, dice chi conosce meno la direzione alla concorrenza dell’Unione.
Il sì all'acquisizione di Fitbit
Il risultato è che se l’Ue rafforza gli strumenti per la concorrenza, dopo la svolta culturale statunitense gli interventi più radicali potrebbero arrivare altrove. Un solo esempio basta per tutti: a pochi giorni dal varo delle proposte europee l’Antitrust Ue ha dato il via libera alla controversa acquisizione di Fitbit, una società di dispositivi tecnologici indossabili per lo sport che raccolgono i dati biometrici di chi li indossa da parte di Google che già dispone di tutti i dati di navigazione degli utenti che usano il suo motore di ricerca: una acquisizione insomma complicata da molti punti di vista, dalla concorrenza alla privacy. Per l’ennesima volta – mai una fusione è stata bloccata nel settore digitale – è arrivato il semaforo verde. Ma dall’Ue. Il 22 dicembre l’autorità antitrust australiana ha annunciato di non aver accettato i rimedi proposti da Google in termini di concorrenza e ha annunciato che prenderà una decisione il marzo prossimo: passato il 2020, il 2021 insomma potrebbe portare altre sorprese.
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