La richiesta di cambiare tempi e modi del lavoro è diventata sempre più diffusa tra le ultime generazioni, che non riescono nemmeno a concepire l’idea di dover rimanere in un ufficio per otto ore, se la loro mansione può essere svolta altrove. C’è l’esigenza di avere un livello di realizzazione più alto, che si integri anche con il privato
Con ritardo rispetto ad altri paesi europei, che hanno messo in pratica le prime sperimentazioni già negli anni Novanta, anche in Italia è finalmente entrato nell’agenda pubblica il tema della riduzione dell’orario di lavoro. Come sostengo nell’intervento su Equilibri Magazine 2024 - La società dell’educazione” della Fondazione Eni, se da una parte lavorare un numero minore di ore può andare incontro a quei lavoratori che sono responsabili anche del lavoro di cura all’interno del proprio nucleo familiare, dall’altra parte rimodulare i ritmi di lavoro può essere funzionale per tutti quei settori in cui grazie alle nuove tecnologie parte del lavoro vivo dell’uomo è stato assorbito dalle macchine o dall’intelligenza artificiale.
Nuovi equilibri
Ma il desiderio di lavorare meno accomuna tutti i lavoratori? È una richiesta mossa da chi è entrato nel mondo del lavoro solo negli ultimi anni oppure riguarda tutti i lavoratori? Come sottolinea Isabella Pierantoni – sociologa e fondatrice di Generation Mover - oggi è sicuramente cambiato il senso del lavoro e ad avviare questo cambiamento sono stati i lavoratori della Generazione X, cioè i nati tra il 1965 e il 1980. Se nel passato per le generazioni più adulte il lavoro era sempre stata un’occasione di miglioramento della propria vita e di quella dei propri cari, i rappresentanti della Generazione X hanno vissuto e sperimentato un senso del lavoro più critico, perché sono cresciuti all’ombra di crisi economiche e una più diffusa disoccupazione, quindi non hanno mai sviluppato l’idea che sul lavoro si dovesse puntare tutto. Piuttosto hanno cominciato a spostare l’attenzione sull’importanza di riequilibrare la propria vita per avere un livello di realizzazione e motivazione più alto, che si integrasse anche con il privato. Ecco questo è un bisogno nato proprio con le persone della Generazione X.
A proseguire su questa strada sono stati i Millennial, nati tra il 1980 e il 1996, una generazione composta non da nativi digitali, ma da persone che, dall’infanzia o dall’adolescenza, hanno avuto ampio accesso ai dati e alle informazioni e utilizzano le tecnologie, e in particolare il web, con estrema facilità. Per i Millennial il lavoro è apertura verso nuove opportunità, con un atteggiamento molto pragmatico: hanno fatto esperienza del precariato, per cui il lavoro non è un elemento inscalfibile su cui costruire la propria vita. E poi c’è la Generazione Z (1997-2012), con i più giovani che stanno crescendo in mezzo a crisi economiche globali e una pandemia. Sono stati chiusi in casa per due anni e mezzo proprio nel periodo della vita in cui si creano le relazioni e si comincia a pensare al lavoro.
Quindi sono i giovani a chiedere di lavorare meno? Pierantoni sostiene che bisogna partire da un presupposto: parlare di generational mindset non significa parlare di età, ma significa parlare di uno sguardo, di una filosofia di vita, che è differente da una generazione all’altra semplicemente perché si hanno a disposizione strumenti, opportunità educative e di lavoro differenti a seconda dell’epoca in cui si cresce. Guardare alla società con la lente generazionale significa riuscire a cogliere alcuni elementi che possono essere diffusi tra persone nate e cresciute nella stessa epoca.
Dopo la pandemia
Sono soprattutto le generazioni più giovani a valorizzare il tempo come elemento di contrattazione, a considerare il lavoro non solo in termini economici ma anche di soddisfazione personale. Come sempre, infatti, i giovani sono portatori di cambiamenti, che talvolta si trasmettono a livello intergenerazionale: se è la Generazione X ad aver iniziato a chiedere la possibilità di lavorare in modo più flessibile, i Millennial l’hanno fatto diventare un fatto concreto con lo smart working, complice la pandemia. Oggi i ragazzi della Generazione Z non riescono nemmeno a concepire l’idea di dover lavorare in un ufficio per otto ore, se la loro mansione può essere svolta altrove.
Un discorso analogo si può fare sul fenomeno delle Grandi Dimissioni, nato negli Stati Uniti, dove nel 2022 circa 47 milioni di persone hanno volontariamente lasciato il proprio posto di lavoro. Il fenomeno è stato trainato dai più giovani, insoddisfatti della propria occupazione per diverse ragioni, ma è stato seguito anche da una fetta di lavoratori più adulti. Il tema della compresenza al lavoro di diverse generazioni di occupati porta con sé, inevitabilmente, anche quello della formazione continua: se si allungano l’aspettativa di vita e i percorsi lavorativi, quanto conta non smettere di acquisire negli anni nuove competenze? Tutti dobbiamo tornare a scuola o, meglio, a studiare. In Italia molti lavoratori giovani sono meno istruiti degli over 50 alla loro stessa età trent’anni fa.
Una buona notizia invece riguarda le Università della Terza età che, fino a prima del Covid, sono esplose, passando da 2,4 milioni a 3,6 milioni di utenti in dieci anni, dal 2008 al 2018: è un segnale del fatto che c’è voglia di rimettersi a imparare o approfondire alcuni temi da parte delle generazioni più adulte e va sostenuta. Merita invece un ragionamento a parte, che riguarda il futuro del nostro Paese, il problema del calo demografico, con le università che nei prossimi quindici anni dovranno far fronte a un calo importante del numero di studenti. Ma tornando alle aziende c’è un grande lavoro intergenerazionale da fare in termini di competenze e formazione: i lavoratori di oggi devono continuare a formarsi, per esempio nell’ambito dell’intelligenza artificiale e della robotica. Il futuro è già arrivato e tutti devono rimettersi a studiare.
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