Il ministro ipotizza l’ingresso dello Stato nel capitale della multinazionale. Un’operazione a caro prezzo, molto difficile da realizzare, che non servirebbe a cambiare le strategie del gruppo automobilistico e a salvare gli stabilimenti italiani
Il bello, si fa per dire, della rissa verbale tra governo e Stellantis è che ormai non si capisce più chi scherza e chi parla sul serio. Nella categoria battute (pare che lo fosse, ma non si sa mai) va segnalata l’ultima di Giancarlo Giorgetti.
Ieri il ministro dell’Economia, interrogato sul tema del ventilato (dal suo collega Adolfo Urso) ingresso dello Stato nel capitale del gruppo automobilistico, ha tagliato corto dicendo che se fosse per lui sarebbe meglio “entrare in Ferrari”. L’azienda del cavallino rampante, che ha chiuso un 2023 da record (1,2 miliardi di profitti) è partecipata, al pari di Stellantis, dal gruppo Exor di John Elkann. A Maranello però non devono convivere con un ingombrante socio francese e tantomeno hanno i problemi di sovraccapacità produttiva degli stabilimenti italiani dell’ex Fiat.
Fatti e numeri
Giorgetti scherzava, quindi. Urso, invece, probabilmente no, quando giovedì ha detto di essere pronto a discutere di un eventuale ingresso nel capitale di Stellantis.
La frase del ministro delle Imprese voleva essere una replica a Carlos Tavares, l’amministratore delegato della multinazionale dell’auto che poche ore prima si era lamentato degli attacchi del governo italiano contro l’azienda, ultimo in ordine di tempo quello della premier Giorgia Meloni.
Il fatto è che nessuno tra i soci di comando di Stellantis sembra disposto ad aprire le porte allo Stato italiano. Non ne vuole sapere Elkann, che rappresenta gli Agnelli e tantomeno i francesi, che poi sarebbero Peugeot con e il governo francese. Gli azionisti di comando controllano insieme il 43,8 per cento dei diritti di voto in assemblea.
Se dunque sembra remota l’ipotesi di un accordo tra il Tesoro italiano e i vertici della multinazionale, pare piuttosto difficile da immaginare anche un rastrellamento di titoli in Borsa da parte del Tesoro. Questione di opportunità politica, con il governo dei sedicenti privatizzatori, pronto per fare cassa a mettere sul mercato quote di Poste o delle Ferrovie, che si lancia in un’operazione da Stato padrone.
Poi va considerata anche la non trascurabile questione del prezzo. Stellantis ha un valore di mercato che oscilla intorno ai 64 miliardi di euro, vale più di Enel (62 miliardi) e anche di Eni (46 miliardi), giusto per fare un confronto con due grandi aziende a controllo pubblico. Quindi significa che per pareggiare la quota di proprietà dello stato francese (6,1 per cento con il 9,6 per cento dei diritti di voto) lo Stato dovrebbe sborsare circa 4 miliardi.
Privatizzatori?
Per inquadrare meglio la questione, e anche la credibilità delle parole di Urso, basta ricordare che il governo sta facendo i salti mortali per trovare un investitore privato che sborsi almeno in parte i 5 miliardi necessari per rilanciare l’ex Ilva di Taranto. Perfino l’acquisto dell’acciaieria, ora in affitto dall’amministrazione straordinaria, appare problematico, eppure costerebbe “solo” un miliardo.
Infine, se l’ipotesi di Urso diventasse realtà, se davvero lo Stato acquistasse una quota azionaria, non è chiaro quale effetto concreto potrebbe avere questa onerosa operazione sull’occupazione ora in forte pericolo negli stabilimenti italiani del gruppo.
Stellantis non è certo un’azienda in crisi che ha bisogno di un’azionista pubblico per tirare avanti. Sono lontani i tempi in cui la Fiat degli Agnelli, una ventina d’anni fa, rischiò davvero il dissesto. All’epoca si parlò ben più concretamente di un possibile salvataggio di Stato, ma il governo Berlusconi allora in carica si mosse nel solito modo, sussidi e cassa integrazione.
Bilanci d’oro
Adesso invece Stellantis ha bilanci che grondano profitti: nei primi sei mesi del 2023 gli utili hanno superato i 10 miliardi di euro e tra meno di due settimane verranno comunicati i risultati dell’anno appena passato, un anno più che positivo nelle attese degli analisti.
Il progressivo disimpegno dall’Italia, al centro delle critiche della politica e dei sindacati, deriva da una precisa scelta strategica. Dal 2021, quando Fiat-Chrysler si è fusa con la francese Psa, Tavares ha ripetuto in numerose occasioni che le fabbriche italiane costano troppo. Un argomento, questo, che basta e avanza per giustificare, agli occhi del manager, tutti i tagli successivi.
Adesso il ceo dell’azienda automobilistica evoca lo spettro di un ulteriore ridimensionamento della presenza di Stellantis nel nostro paese e lo fa, non a caso, chiedendo incentivi per le auto elettriche ancora maggiori di quelli già garantiti dal governo di Roma.
Chi paga il conto
Insomma, le parti in commedia sono ben definite e il problema, per Urso, è che non può fare nulla di concreto per ostacolare Tavares.
Anche lo sbarco in Italia di un secondo grande produttore di auto resta per ora un auspicio del governo e richiederebbe comunque tempi lunghi.
A pagare il conto rischiano di essere ancora una volta i lavoratori, in primis quelli di Mirafiori e Pomigliano, gli stabilimenti più in difficoltà. Ieri il leader della Cgil, Maurizio Landini, è intervenuto per chiedere a Giorgia Meloni di convocare un incontro tra i sindacati e l’azienda a palazzo Chigi. «Gli incentivi da soli non bastano» – ha detto Landini, chiedendo, anche lui, un intervento diretto dello Stato nell’azionariato del gruppo automobilistico.
In attesa di sviluppi concreti, la Borsa già festeggia. Le chiacchiere sull’ingresso dello Stato hanno messo in moto la speculazione.
Questa settimana il titolo Stellantis ha messo a segno un rialzo vicino al 10 per cento, il 2,3 per cento nella sola giornata di venerdì. Gli investitori, almeno loro, ringraziano Urso.
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