Il livello delle dimissioni negli Usa torna quello del 2019, ma è tutto risolto? L’atteggiamento delle persone nei confronti dell’occupazione sembra cambiato per sempre
A luglio 2023 il livello delle dimissioni negli Stati Uniti è tornato quello del 2019 dopo la marcata crescita del periodo post pandemico. I numeri restano più elevati in alcuni settori, come la manifattura o le costruzioni, ma sono uguali o addirittura inferiori in molti altri, compresi il retail o la ristorazione che negli ultimi anni avevano guidato il fenomeno ormai noto come «grandi dimissioni». Il calo non è repentino, ma è il risultato di un trend discendente in corso ormai da un anno e consente di svolgere diverse riflessioni.
Innanzitutto la coincidenza tra il fenomeno delle dimissioni e il buon andamento dell’economia, in questo caso americana ma potremmo allargare lo sguardo a altri paesi, suggerisce come il fenomeno fosse la risultanza di una certa insoddisfazione maturata durante la pandemia ma resa possibile, nelle sue conseguenze (le dimissioni) da un andamento molto positivo della domanda di lavoro.
Negli Usa infatti il numero di posizioni aperte nella primavera del 2022 era di oltre il 60 per cento maggiore rispetto a quella del gennaio 2020, il tutto in un mercato che è caratterizzato già di per sé da una maggior flessibilità.
Cosa sono le grandi dimissioni
Molto si è indagato e si indagherà sulle cause del fenomeno conosciuto come «grandi dimissioni», che in parte si è verificato anche dopo la recessione del 2008 (che aveva avuto però una durata maggiore), e troppo spesso si è caduti in banalizzazioni, a partire da quella che vede il lavoro ampiamente declassato tra gli interessi e le priorità delle persone. Quasi che la pandemia non avesse fatto, semmai, comprendere l’urgenza di un cambio in determinate condizioni di lavoro ma allontanato dal lavoro tout court.
È più probabile che in questo arco temporale sia avvenuta una grande riallocazione della forza lavoro, secondo dinamiche che ancora oggi non conosciamo bene. Questo processo si è al momento placato. È chiaro quindi che non suggeriva un cambio complessivo di atteggiamento nei confronti del lavoro, salvo pensare che dopo una ondata rivendicativa post-pandemia le persone si siano dovute scontrare con la dura realtà della necessità di un lavoro per sopravvivere.
È però più interessante e sfidante ragionare su cosa invece può aver spinto a cambiare lavoro, e a cambiarlo consapevolmente lasciando la propria occupazione per una occupazione nuova.
Le ragioni
Le ragioni sono molteplici. In primo luogo c’è un tema salariale ed è dei giorni scorsi la notizia che l’azienda dei trasporti urbani di Boston è riuscita ad aumentare del 350 per cento le candidature per posizioni che andavano deserte aumentando considerevolmente il salario d’accesso.
I dati elaborati dall’Upjohn Institute mostrano proprio come i salari e il potere d’acquisto per i nuovi assunti siano molto cresciuti nel periodo in cui le dimissioni aumentavano. A conferma che la dimensione economica conta eccome nella scelta di un’occupazione e anche nel cambiarla: a fronte di una crescita di offerte di lavoro in un momento di forte riapertura del mercato successivo al rallentamento generale della pandemia l’aumento dei salari ha generato sicuramente una spinta alla mobilità.
Lavoro che cambia
Ma non si può ridurre il tutto a una dimensione economica. Sono molte infatti le ricerche che hanno osservato un diverso atteggiamento di molte persone nei confronti delle attività lavorative. Non ci sono solo le dimissioni, si parla anche spesso di quiet quitting per identificare il fenomeno che porterebbe i lavoratori a ridurre al minimo il proprio lavoro così da essere adempienti unicamente a quanto previsto dalle mansioni contrattuali, senza alcun coinvolgimento ulteriore. Altre indagini hanno osservato una rinata attenzione alla vita privata, per effetto anche del grande sconvolgimento di priorità e abitudini portato dal Covid.
In generale, senza voler ridurre ad aspetti specifici che altro non sono se non manifestazioni sintomatiche di una diagnosi più complessa, si può parlare di una crisi del senso del lavoro contemporaneo, che di certo non nasce con la pandemia ma che essa ha contribuito a far esplodere.
Il riferimento è alla crisi di un modello di lavoro tipico del tardo capitalismo novecentesco, fondato su modelli di organizzazione che ruotano intorno a quello che Marcuse già negli anni Sessanta definiva «principio di prestazione», non immaginando ancora i modelli della cultura manageriale che si sarebbero affacciati soprattutto a partire dagli anni Ottanta. Questo si è tradotto nell’adottare la misurazione quantitativa degli esiti della propria prestazione lavorativa come unico criterio di valutazione, e quindi, in un perverso sillogismo, del senso stesso del lavoro.
Lavoro che sfugge
Il lavoro quindi sempre più concepito come attività dai cui esiti dipende la realizzazione della persona, e soprattutto la sua legittimazione sociale. Responsabilità individuale che spesso si traduce nella diffusione di fenomeni di ansia e depressione imputabili oggettivamente al lavoro ma spesso soggettivamente percepiti come inadeguatezza rispetto a quanto richiesto.
In ultimo, la riduzione del lavoro come fenomeno individuale, che vede la sua dimensione collettiva non solo di costruzione relazionale del sé, ma anche della società nel suo insieme, venir sempre meno. È probabile che sia anche da questo tipo di lavoro che si fugge, a volte non riuscendoci ma consolandosi con una paga maggiore, a volte trovando modelli organizzativi e responsabilità più sostenibili.
Ma non possiamo rimandare il problema alla prossima crisi, anche a causa dello svuotamento demografico della forza lavoro, le imprese hanno la necessità di ripensare ai modelli di lavoro, senza sprecare le consapevolezze che il periodo pandemico e la sua coda ci hanno fornito.
© Riproduzione riservata