La Nadef prevede una riduzione del rapporto debito/Pil dal 141,7 per cento del 2022 al 140,1 del 2024, nonostante un disavanzo del 5,3 del Pil quest’anno e del 4,3 l’anno prossimo, e un aumento della spesa per interessi che arriva al 4,2 l’anno prossimo. Le previsioni del governo si basano su tre ipotesi che definirei labili: una ripresa della crescita; il ruolo dell’inflazione; e le privatizzazioni.
La crescita del Pil è stimata nella Nadef all’1,2 il prossimo anno, nonostante lo scenario economico globale in rapido deterioramento: le stime di consenso infatti prevedono per l’Italia appena lo 0,8 e 0,7 rispettivamente per 2023 e 2024. Con aliquote fisse, l’inflazione gonfia le entrate tributarie, basate sul prezzo dei beni (Iva e accise) e su redditi personali e utili societari, che salgono con l’aumento generale dei prezzi, mentre la spesa pubblica corrente non tiene il passo dell’inflazione: così nella Nadef le entrate tributarie aumentano del 7,5, del 5,6 e del 1,7 per cento rispettivamente nel triennio 2022/24, mentre la spesa corrente al netto degli interessi cresce più lentamente di circa tre punti percentuali in media ogni anno.
Nonostante la combinazione di una crescita sovrastimata e l’impatto dell’inflazione, il governo stima un disavanzo primario dell’1,5 per cento del Pil quest’anno e dello 0,2 l’anno prossimo.
Stime inaffidabili
Le previsioni per gli anni successivi sono notoriamente inaffidabili perché basate su ipotesi eccessivamente ottimistiche e per l’enorme incertezza sul futuro. L’avanzo primario è la variabile chiave per determinare la sostenibilità dei conti pubblici perché mostra quanto la sottostante dinamica delle spese e delle entrate crea o distrugge debito, e in che misura le finanze pubbliche sono in grado di sostenere il pagamento degli interessi.
La precarietà delle stime su entrate e inflazione rende precaria la previsione sull’avanzo primario, che indica come la dinamica del debito sia ancora lontana da un sentiero di sostenibilità. In presenza di un disavanzo primario, o di una avanzo quasi nullo, il ricorso alle privatizzazioni per ridurre il debito pubblico, come il governo ha dichiarato di voler fare, equivale a finanziare la spesa pubblica vendendo attività. In questo caso, l’eventuale riduzione del rapporto debito/Pil, sarebbe solo temporanea.
Le privatizzazioni possono stabilizzare le finanze pubbliche se fatte in misura tale da abbattere significativamente il debito, e all’inizio di un lungo periodo di moderazione fiscale e avanzi primari, come accadde negli anni Novanta, quando privatizzazioni per 100 miliardi portarono il debito dal 121 per cento del Pil (1995) al 106 (2005).
In quel decennio, l’Italia mantenne sempre un avanzo primario, in media del 3,3 per cento del Pil, e fu creato un «fondo di stabilizzazione del debito» in cui far confluire i proventi delle privatizzazioni. Tutte condizioni oggi assenti; per questo, le privatizzazioni non incideranno sul giudizio di sostenibilità, mancando la volontà di mantenere un periodo prolungato di avanzi primari. Non è, questa, una buona ragione per non privatizzare, soprattutto quando la presenza dello Stato nel capitale delle imprese è tanto vasta come in Italia.
Il fallimento dello Stato azionista
Le privatizzazioni, soprattutto delle partecipazioni in società spesso quotate e redditizie (che quindi non hanno bisogno dello Stato), dovrebbero servire per reinvestire il capitale pubblico in settori quali ricerca, istruzione, innovazione tecnologica, sanità, sicurezza, tutela dell’ambiente capaci di aumentare la produttività nel lungo periodo.
Bisogna smetterla di giustificare lo Stato azionista col pretesto della «strategicità», specie quando esiste una normativa sul Golden Power così estesa da proteggere gli «interessi nazionali» anche per prodotti maturi come i pneumatici di Pirelli (il radiale è del 1948). Se, ipoteticamente, lo Stato italiano vendesse le partecipazioni in Eni, Autostrade, Enel, Terna, Snam, Italgas, Leonardo, Poste, Stm, Trenitalia, Raiway, Webuild eccetera (e incentivasse gli enti locali a fare altrettanto) per finanziare un massiccio programma per mettere in sicurezza idro-geologica il Paese, promuovere una nostra Silicon Valley (come il Governo americano ha fatto usando il budget della difesa), fare dei nostri ospedali centri di eccellenza internazionale, dotati di macchinari e strutture all’avanguardia, gli interessi nazionali sarebbero meno tutelati? E quale sarebbe l’impatto sulla produttività?
Ma, a monte, c’è un problema ben più grave: il ruolo fallimentare dello stato azionista. In molti casi le partecipazioni pubbliche sono state ereditate dal passato e le nomine dei loro consigli di amministrazione sono diventate una sorta di «fringe benefit» al quale nessun governo ha voluto rinunciare. In qualche caso, lo Stato è invece intervenuto per ristrutturare e tentare di rilanciare un’azienda tradizionale in crisi, senza mai riuscirci però, prolungandone così la crisi.
Lo Stato non è capace di ristrutturare perché non è disposto a sopportare l’impatto sul consenso degli inevitabili costi sociali che comporta, né è in grado per sua natura di valutare le reali opportunità di sviluppo delle imprese. Ma non ristrutturando, non fa che aumentare i costi sociali: il classico serpente che si morde la coda. Meglio sarebbe che lo Stato si accollasse i costi sociali e le eventuali contingenze negative, cedendo la partecipazione, senza paracadute pubblico di sorta, a chi sa meglio rilanciare la società, invece di continuare a illudersi e sperare in maggiori proventi futuri.
Casi di insuccesso
Gli esempi sono numerosi. Saipem è stata salvata da Cassa Depositi e Prestiti nel 2016, per poi dover essere «salvata» nuovamente nel 2022. Dopo aver iniettato risorse in MPS, in svariati aumenti di capitale, il governo vorrebbe ora farsi banchiere e guidare la costruzione di un fantomatico polo, per incassare un premio di controllo. Dovrebbe, invece, accollarsi il badwill e, se la banca è risanata, collocare subito sul mercato il 51%, e chi vuole se la compra: così stanno facendo il governo portoghese con la compagni di bandiera Tap, e gli scandinavi con Sas. Mentre noi siamo riusciti a vendere il controllo di Ita (ex Alitalia) a Lufthansa, che vuole solo il 40 per cento per verificare che la compagnia sia gestibile prima di salire nel capitale. Sarebbe stato meglio vendergli allo stesso prezzo il 100 per cento, negoziando un earn out in caso di utili futuri, ma avendo la certezza di essersi liberati di un problema.
Ansaldo Energia (turbine), Trevi (impiantistica), Valvitalia (valvole) sono in ristrutturazione permanente. Non si capisce quale sia la strategia per Ilva, che ormai si trascina da anni: come si può ristrutturare una società con gli impianti sotto sequestro perché non rispettano gli standard di sicurezza?
Chi mai si prenderebbe una responsabilità simile se non lo Stato, che però non hai le risorse per fare gli investimenti necessari a soddisfare gli standard ambientali ma, al tempo stesso, vuole mantenere l’attività per evitare i costi sociali? E neppure si capisce la ragione dell’ingresso dello Stato nella rete di Tim, visto che c’è un privato che vuole comperare, e visto che già possiede la concorrente OpenFiber, oberata dai debiti e lontana dalla redditività: a meno di creare un bel monopolio con la rete di Tim, sulle spalle degli italiani.
Fincantieri è in perdita dal 2019, e avere lo Stato azionista non sembra aiutare la sua espansione visto come è fallita la tentata fusione con i francesi di Chantiers de l’Atlantique. Ma lo Stato azionista, e il suo Golden power può essere un ostacolo per altre concentrazioni auspicabili, come nel caso di Nexi nei sistemi di pagamento, per reggere la concorrenza dei colossi Visa e Mastercard. E ci sono poi partecipazioni di cui non si riesce a capire neanche la ratio dell’intervento pubblico, come quella in Euronext (Borsa titoli).
In ogni caso, possiamo essere ragionevolmente certi che, appena approvata la legge di bilancio, di privatizzazioni non sentiremo più parlare.
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