- Dalle modifiche al reddito di cittadinanza ad opzione donna, sullo stato sociale il governo adotta sempre lo stesso metodo.
- Prima si decidono i tagli e poi si adeguano le misure alle nuove risorse disponibili.
- E quando arriva la paura di perdere consensi ci si affretta a cercare di correggerle ancora, lasciando nell’incertezza i cittadini
Da una parte si ipotizza un taglio fino a tre miliardi di sussidi ai poveri dall’altra si è ancora alla ricerca di circa 600 milioni di euro da utilizzare nell’arco di tre anni per rifinanziare Opzione donna. Negli ultimi giorni i problemi al ministero del Lavoro sembrano moltiplicarsi, invece che trovare soluzione. Mentre il capogruppo di Fratelli d’Italia Tommaso Foti dice che della riforma del reddito di cittadinanza destinato a essere sostituito dalla ben meno generosa Mia (Misura di inclusione attiva) si discuterà in parlamento, la ministra Marina Elvira Calderone promette un confronto allargato anche con le parti sociali. Intanto però su Opzione donna, su cui le interlocuzioni con i sindacati erano pure state aperte, prima con un tavolo pletorico il 20 gennaio, poi con uno tecnico il 14 febbraio, al momento non si sono registrati sviluppi.
Il metodo è di fatto lo stesso: prima si decidono i tagli e poi si decidono i criteri con cui le misure possono accordarsi ai tagli, poi una volta messe in piedi le modifiche per paura di perdita dei consensi si passa a cercare di correggerle, lasciando nell’incertezza i cittadini coinvolti
Le promesse su Opzione donna
Sia Opzione Donna, cioè la possibilità di anticipo pensionistico per le donne che ricade completamente nel sistema contributivo, che il reddito di cittadinanza sono tra le misure che sono state falciate con la prima legge di bilancio del governo Meloni. I criteri per l’anticipo pensionistico delle donne sono stati modificati esplicitamente per restringere la platea che poteva accedervi, in realtà appena qualche decina di migliaio di persone, come spiegavano in quei giorni dal ministero dell’Economia. Ed evidentemente qualcuno ha creduto che legare la possibilità a condizioni fortemente debilitanti, come la disabilità riconosciuta al 74 per cento o l’essere care giver e fissare l’uscita in base al numero dei figli (due per uscire dal lavoro a 58 anni, uno a 59, senza figli a 60), potesse essere un criterio condiviso, invece che discriminatorio. Il governo, nonostante le critiche, arrivate da tutti i sindacati e non solo da quelli, ha tirato dritto in nome dei saldi di bilancio.
Al momento la platea di Opzione donna si è ridotta a 2900 persone che rientrano nei nuovi criteri, solo per le licenziate o le dipendenti di aziende in crisi l’uscita è possibile a 58 anni senza la necessità di avere due figli a carico, dopodiché «già il 20 gennaio la ministra Calderone spiegava alle parti sociali che il ritorno ai criteri precedenti era previsto a brevissimo», racconta Christian Ferrari, che segue nella segreteria Cgil il dossier previdenza, e in particolare l’emergenza giovani e donne. Non è stato così e a febbraio c’è stato un nuovo incontro questa volta ristretto alle maggiori sigle sindacali con il sottosegretario Claudio Durigon e con la stessa promessa. Ma da allora non c’è più stato alcun aggiornamento, dice Ferrari. La promessa di ripristinare il vecchio modello sembra essersi fermata alla porta del ministero dell’Economia e si è trasformata in un nuovo compromesso con criteri meno restrittivi di prima, ma ancora al vaglio del Mef e che peraltro avrebbe un orizzonte di tempo ancora più breve, al massimo di nove mesi.
Questi mesi di incertezza sono ancora più significativi, considerato che, come ricorda Ferrari, «per Opzione Donna si tratta di un anticipo di cassa, visto che le uscite vengono pagate rientrando pienamente nel sistema contributivo». Lo stesso sindacalista ammette di non credere che la formula per le uscite anticipate «sia la soluzione visto che è fortemente penalizzante ma crediamo che sia il minimo segnale di attenzione alla categoria più in difficoltà a livello previdenziale».
Il taglio agli assegni per i poveri
Anche sul reddito il taglio nella legge di bilancio è seguito da nuovi correttivi, questa volta però in senso peggiorativo. La bozza del disegno di legge che istituisce “Mia” prevede una soglia Isee ancora più bassa per accedere al sostegno alla povertà, da 9.600 euro si passa a poco più di 7.200, destinata a ridurre la platea dei beneficiari fino a un terzo e una riduzione dell’assegno nel mezzo di una crisi inflattiva che si abbatte soprattutto sulle famiglie a basso reddito. Il tutto mantenendo criteri difficili da motivare razionalmente che, esattamente come per Opzione donna, confondono il piano dei bisogni famigliari con quelli relativi al mercato del lavoro. Viene, infatti, confermato che i cosiddetti occupabili, destinati a condizioni molto più restrittive in termini di durata e proroga del beneficio, corrispondono all’insieme di chi può lavorare ma anche di chi non ha in famiglia un anziano, un minore o una persona con disabilità. Unici aspetti migliorativi la cumulabilità del sussidio con un reddito di 3mila euro lordi l’anno e la riduzione del periodo di residenza in Italia per potervi accedere da dieci a cinque anni, anche se comunque non in linea con le raccomandazioni europee. Resta il programma Gol per la formazione che nelle regioni del sud di fatto si occupa soprattutto dei beneficiari del reddito di cittadinanza e che è finanziato con i fondi del Pnrr. Secondo i dati Anpal aggiornati a ottobre tredici regioni su venti hanno raggiunto, e in diversi casi superato, gli obiettivi europei che riguardano solo il numero di persone inserite nei percorsi di formazione. Sette sono indietro. Il disegno di legge reitera la promessa di un sistema accentrato e telematico di presentazione delle domande che si incrocia con le altre banche dati pubbliche, già promesso ai tempi di Luigi Di Maio ministro che abolisce la povertà. E certamente i sindacati accoglieranno con favore l’annuncio della ministra, visto che finora non c’era stato nessun confronto, ma la Cgil è anche pronta a contestare il merito della riforma, in un paese in cui ci sono sei milioni di poveri e un terzo dei lavoratori del privato ha meno di diecimila euro di reddito l’anno secondo l’Istat.
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