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Ci sono quattro incertezze per il futuro. Ci sarà una recessione? L’inflazione ritornerà intorno al 2 per cento? Quanto a lungo durerà l’emergenza energetica? E quali saranno alla lunga le conseguenze dei rischi geopolitici?
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È probabile che l’anno prossimo la recessione arrivi negli Usa. Ma il rischio è elevato anche in Europa, perchè non c’è la volontà politica in Europa di una politica fiscale comune e perchè in un mercato finanziariamente integrato la Bce è costretta a seguire la Fed.
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Probabile che le banche centrali abbandoneranno la politica restrittiva prima di raggiungere l’obiettivo del 2 per cento, accentando così che l’inflazione si stabilizzi a un livello superiore. Mentre le conseguenze dei rischi geopolitici saranno durature.
La fine dell’anno si presenta particolarmente incerto per le prospettive economiche. Nonostante rischi e fonti di incertezza siano naturalmente correlati tra di loro, è utile schematizzare l’incertezza che ci attende riducendola a quattro quesiti.
Gli Stati Uniti e l’Europa si stanno avviando verso una vera e propria recessione? L’inflazione ritornerà intorno al 2 per cento, per poi stabilizzarsi a questo livello come in passato?
Quanto a lungo durerà l’emergenza energetica in Europa? E quali saranno alla lunga le conseguenze dei rischi geopolitici che la guerra in Ucraina e le tensioni su Taiwan hanno palesato?
Politica monetaria
Il rischio recessione dipende dalla politica monetaria della Fed, e di riflesso della Bce data l’integrazione dei mercati finanziari.
Se si guarda agli indicatori macroeconomici la crescita Usa si sta raffreddando ma siamo ben lungi da una recessione: la disoccupazione rimane ai minimi e per ottobre ci si attendono altri 180mila nuovi posti di lavoro; reddito disponibile e consumi privati continuano a crescere; i margini delle imprese sebbene in contrazione rimangono su livelli storicamente elevati e la loro struttura finanziaria è solida.
Però l’inflazione rimane ostinatamente vicina ai livelli massimi raggiunti quest’estate e la Fed, dichiaratamente priva di un modello per prevedere l’inflazione, non cambierà la sua politica fino a quando avrà evidenza che la crescita dei prezzi si sarà considerevolmente e stabilmente ridotta.
Ma poiché i prezzi scendono proprio a seguito della contrazione della domanda e dell’aumento indesiderato delle scorte, è più che probabile che la Fed agirà in ritardo e il rischio recessione è garantito.
Molti indicatori finanziari già lo segnalano: i produttori di semiconduttori, una componente ormai presente in qualsiasi bene durevole, tagliano gli investimenti prevedendo una caduta dei ricavi;
le vendite immobiliari sono in picchiata per via del più forte aumento dei tassi sui mutui da decenni; e il crollo delle attività finanziarie sta avendo un imponente effetto sulla ricchezza delle famiglie (le perdite di valore in borsa equivalgono al 54 per cento del Pil). È quindi probabile che l’anno prossimo la recessione arrivi negli Usa.
Caro energia
In Europa l’inflazione è legata soprattutto al caro energia; ma anche al netto di quest’ultima e dei prezzi dei beni alimentari è comunque al 4,8 per cento, più del doppio dell’obiettivo del 2, segno evidente di un eccesso di liquidità nel sistema.
Inoltre, in un mercato finanziariamente integrato la Bce è costretta a seguire la Fed, come dimostra il recente aumento dello 0,75 dei suoi tassi, e l’intenzione di aumentarli ancora, pena la continua erosione dell’euro, arrivato a svalutarsi fino al 15 per cento da inizio anno, alimentando in questo modo l’inflazione che in buona parte è importata.
Il rischio recessione è dunque elevato anche in Europa, anche perché l’uso della politica fiscale da parte dei singoli governi nazionali è fortemente limitato in presenza di aumenti dei tassi e riduzione della liquidità come la crisi inglese ha chiaramente dimostrato;
né c’è la volontà politica in Europa di una politica fiscale comune. Quanto sia concreto il rischio recessione lo dimostrano le valutazioni delle banche che in media valgono il 60 per cento del loro patrimonio nonostante l’aumento dei tassi migliori i loro margini, segno che si temono le sofferenze che una recessione causerebbe.
Ultimamente l’andamento dei mercati è stato sostenuto dall’idea del pivot, ovvero che le banche centrali messe di fronte alla realtà della recessione invertano la rotta sui tassi già nel 2023, a prescindere dall’inflazione, specie in Europa: l’aumento dei tassi Bce ha infatti provocato una riduzione dei rendimenti dei titoli a lungo termine.
Un pivot è probabile visto che anche i banchieri centrali sono soggetti alle pressioni dell’opinione pubblica, ma credo che arriverà solo dopo i primi chiari segni di recessione, e che pertanto sarà difficilmente evitabile.
Stabilizzazione oltre il 2 per cento
Questo ci porta al secondo quesito: un pivot implica che le banche centrali abbandoneranno la politica restrittiva prima di raggiungere l’obiettivo del 2 per cento, accentando così che l’inflazione si stabilizzi a un livello superiore.
È quanto successo in passato: uno studio riportato da Bloomberg mostra come negli ultimi 100 anni dopo ogni periodo di inflazione all’8 per cento, questa rimanga a lungo superiore alla media degli anni precedenti.
Un’inflazione anche se non di molto superiore al 2 per cento può però avere effetti fortemente distorsivi perchè stipendi pensioni e imposte non sono indicizzati, e la capacità delle imprese di trasferire a valle l’aumento dei costi varia molto in funzione del regime di regolamentazione o livello di concorrenza in cui operano.
Per esempio, nei primi 8 mesi le entrate in Italia da Iva e imposte dirette sono aumentate rispettivamente del 18 e 13 per cento, rispetto a una previsione (Nadef) di crescita per quest’anno del deflatore dei consumi e del costo del lavoro, rispettivamente 6 e 3,5 per cento.
L’impennata dei prezzi del gas in Europa causato dal taglio delle forniture russe è stato amplificato dal premio per il rischio nei contratti a termine dovuto all’estrema incertezza, dal costo di trovare rapidamente forniture alternative e da fattori contingenti come il prezzo elevato che si è dovuto pagare per riempire gli stoccaggi con l’Lng americano destinato all’Asia.
Ma sono fattori destinati ad esaurire i loro effetti nel tempo, e la sola discussione sul price cap ha ridotto il premio per il rischio: i prezzi a termine per consegna dicembre 2023 sono infatti uguali a quelli per il prossimo dicembre, più che dimezzati rispetto al picco di agosto; e già a giugno 2024 i mercati scontano una discesa ai livelli pre guerra in Ucraina.
La crisi energetica è dunque un grave shock, ma transitorio; e che inoltre darà un forte impulso alle rinnovabili riducendo il costo energetico e aumentando l’autosufficienza dell’Europa.
Rischi geopolitici
Le conseguenze dei rischi geopolitici saranno invece durature. Questi rischi spingono i paesi ad accorciare le filiere di produzione riportandole vicino a casa (il cosiddetto onshoring), a garantirsi fonti di approvvigionamento alternative, ed avere la proprietà delle tecnologie e delle infrastrutture considerate strategiche.
Per le imprese significa aumentare i costi di produzione, venendo gradualmente meno il vantaggio di delocalizzare la produzione laddove è più conveniente, e dovendo necessariamente operare con un maggior livello di scorte.
E la diversificazione degli approvvigionamenti riduce le economie di scala. La necessità europea di sostituire le forniture Russe comporta il costo di nuove infrastrutture e di dover competere con gli altri paesi per gli acquisti di Lng e gas alternativi a quello russo.
Il divieto Usa di esportazione di tecnologia avanzata alla Cina priva le imprese americane dell’accesso a un vasto mercato, riducendone i margini; come la decisione occidentale di onshoring della produzione di semiconduttori, batterie e tecnologia per le rinnovabili ora appannaggio di Taiwan e Cina.
La geopolitica inoltre alza le barriere contro i movimenti di capitale aumentando il costo di finanziare gli investimenti. In Germania la decisione del governo di vendere il 25 per cento del porto di Amburgo ai cinesi ha scatenato un dibattito nazionale; frequente è l’utilizzo del golden power per bloccare le acquisizioni da parte di stranieri; e molte società sciolgono i legami con entità legate al governo cinese come la svizzera Mercuria che si è appena ricomprata la quota detenuta da ChemChina.
Un rischio che in Italia non pare preoccupare visto che il 35 per cento di Cdp Reti (controlla le nostre reti di elettricità e gas) fa riferimento al Governo Cinese ,e la medesima ChemChina non bene accetta in Svizzera, da noi controlla Pirelli.
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