In Italia, la transizione all’auto elettrica è percepita come un atto di velleitario dirigismo da parte della Commissione europea, che ha imposto lo stop alla produzione di veicoli con motore endotermico dal 2035.

Decisione che si sta rivelando un flop: le vendite di BEV (alimentati solo a batteria) e Full-Hybrid (PHEV) ristagnano a causa di ridotta autonomia, alto costo e difficoltà nella ricarica; e molte case automobilistiche hanno rallentato produzione e rinviato investimenti nell’elettrico (Tesla taglia il 10 per cento degli occupati); e flotte aziendali e società di noleggio rifuggono dai veicoli elettrici (EV) per il ridotto valore dell’usato.

È stato un grave errore pensare che si potesse fare la transizione per decreto, senza tener conto dei costi della riorganizzazione della produzione e della difficoltà di creare una domanda cambiando le abitudini dei consumatori. I cittadini non si lasciano convincere dalla motivazione della riduzione delle emissioni, che considerano minimo rispetto alle necessità dettate dal cambiamento climatico, a fronte di un aumento del costo di un bene indispensabile.

Ha quindi avuto buon gioco chi ha caratterizzato gli EV come un totem ideologico di ambientalisti incuranti dei veri bisogni della gente. Sarebbe tuttavia grave ignorare che la transizione all’elettrico è ormai irreversibile, e che il rallentamento del mercato è solo una temporanea fase tipica delle forti discontinuità tecnologiche e di prodotto.

Il dominio cinese

I due maggiori mercati delle auto al mondo, Cina e Usa, definiscono le tendenze dell’industria mondiale. La Cina produce ormai più del 50 per cento degli EV al mondo, trainata da un mercato interno in cui il 40 per cento delle nuove auto sono elettriche, permettendo al settore di beneficiare di economie di scala e produrre a un costo inferiore del 30 per cento rispetto ai concorrenti europei, e di dominare nelle componenti chiavi, come le batterie.

Dopo aver comperato aziende europee (MG, Volvo, Lotus, ma anche Pirelli), le case cinesi cominciano a produrre da noi con i propri marchi (Chery, BYD), evitando le barriere tariffarie; innovano (BYD ha appena lanciato una PHEV con un’autonomia di 2.000 chilometri); e aggrediscono il segmento di fascia alta, come dimostra il successo dell’Ipo a Wall Street della start up cinese Zeeker (valutata oltre sei miliardi), che vuole competere con Tesla. Gli Stati Uniti sono in ritardo anche rispetto all’Europa per quota di auto elettriche vendute (10 per cento, contro rispetto al 21 europeo). Ma Tesla rimane leader di mercato e ha accumulato un grosso vantaggio di know how, anche se oggi patisce l’aver ritardato l’uscita di nuovi modelli e tagliato i prezzi, anticipando troppo lo sviluppo di massa dell’elettrico.

Tuttavia, grazie ai crediti di imposta del governo, gli Usa stanno investendo massicciamente in capacità produttiva di EV, componentistica, batterie e infrastrutture per la ricarica, per raggiungere le economie di scala e abbattere i costi, proteggendo nel contempo l’industria nazionale dalla concorrenza cinese con tariffe esorbitanti (100 per cento). Si stima che l’anno prossimo le vendite di veicoli elettrici dovrebbero passeranno dai 1,1 milioni di veicoli del 2023 a 2,5.

L’elettricocineseconquistal’Ue

Il mercato europeo

Negli ultimi due anni, in Europa la quota di veicoli elettrici è rimasta costante, intorno al 20 per cento (2,2 milioni di BEV e 1,1 di PHEV), ma solo grazie ai paesi scandinavi. A fronte di una domanda debole le case europee (come le giapponesi) hanno rallentato gli investimenti sui BEV, preferendo l’ibrido che, però, non decolla; e devono sopportare il costo di mantenere le piattaforme per le auto a motore endotermico.

I ritardi accumulati non permettono loro di competere coi cinesi in termini di costo e innovazione di prodotto; e perdono gradualmente quote di mercato in Cina, dove predominano gli EV, cioè nel loro principale mercato di esportazione (l’Asia conta per il 36, 30 e 16 per cento dei ricavi di Bmw, Mercedes e Volkswagen), mentre in Europa cresce la penetrazione di Tesla e dei produttori cinesi. E le quote di mercato, una volta perse, sono difficili da recuperare.

All’Europa non conviene imporre tariffe proibitive per frenare l’invasione di auto cinese: scoraggerebbero una domanda già debole e darebbero all’industria europea un incentivo a procrastinare gli investimenti necessari a raggiungere le economie di scala. Inoltre, si rischierebbe una guerra commerciale con la Cina in cui l’Europa avrebbe la peggio, visto la maggiore integrazione economica rispetto agli Stati Uniti: la Cina è un grande mercato di sbocco per le nostre imprese, e la destinazione di molte produzioni a basso costo, che poi importiamo.

L’industria europea dell’auto elettrica rischia di fare la fine di quella dei pannelli solari: essere schiacciata dalla concorrenza cinese. A fronte di questo rischio, l’amministratore delegato di Renault ha proposto una soluzione «Airbus»: una fusione, promossa dai governi, tra Stellantis, Renault e Volkswagen. Non è realistica, ma dà la misura dell’urgenza di soluzioni concordate a livello europeo per evitare il declino di un’industria, auto e componenti, cruciale per l’economia del continente. I singoli paesi, in ordine sparso, non sono in grado di competere con la potenza industriale cinese o i crediti di imposta americani.

Una politica comune europea, finanziata con debito mutualizzato, dovrebbe agire lungo due direttrici: agevolare l’utilizzo di EV promuovendo una capillare rete europea di stazioni di ricarica, con standard uniformi e prezzi dell’elettricità uguali ovunque e sussidiati, temporaneamente, per rendere il costo della ricarica competitivo rispetto alla benzina; e dal lato dell’offerta con un programma di crediti di imposta mirati per abbattere il costo degli investimenti, evitando incentivi e bonus per gli acquisti, che beneficiano maggiormente chi è già convinto di acquistare un’auto elettrica.

Fanalino di coda

L’Italia è fanalino di coda in Europa e rischia più di tutti, vista la rilevanza dell’industria automobilistica e delle componenti nell’economia italiana. In attesa di una politica comune europea, il governo, invece di arroccarsi a difesa del biofuel (che non può fermare Tesla e cinesi) dovrebbe fare tre cose. Primo, sostenere gli investimenti e i costi sociali necessari alla trasformazione elettrica di un settore importante come la componentistica, a cominciare da batterie, sensori, ed elettronica: bene i due miliardi miliardi a Stm per il nuovo impianto di semiconduttori a Catania.

Secondo, invece di sgarbi infantili (come cancellare il nome Milano della nuova Alfa Romeo), o dei finanziamenti e sussidi incondizionati del passato, ingaggiare costruttivamente Stellantis, il maggior produttore italiano, per capire cosa fare per portare la produttività degli impianti italiani ai più elevati standard mondiali, che non credo sia solo una questione di costo del lavoro: e la logistica? L’organizzazione produttiva e delle filiere? I fornitori? le professionalità? La rete di distribuzione?

Per Stellantis l’Italia è importante: quarto mercato per vendite al mondo dopo Stati Uniti, Brasile e Francia, ma prima della Germania, e terzo paese per ammontare di investimenti fissi. L’interesse dell’ azienda e del governo dovrebbero dunque coincidere. Inoltre, è una multinazionale dove Francia e Italia assieme contano appena per il 16 per cento dei ricavi, contro il 47 degli Stati Uniti: Stellantis produce pertanto dove le conviene e vende dove ci sono consumatori; ingenuo pensare che un’eventuale partecipazione dello stato italiano (e di quello francese) possa condizionarne la gestione.

Terzo, promuovere l’integrazione e lo sviluppo di una infrastruttura capillare unica per la ricarica, con accesso e caratteristiche standard, e costi dell’elettricità fissi e sussidiati per promuoverne l’utilizzo. La mia esperienza personale è invece fatta di una moltitudine di fornitori con altrettante app, contratti, prezzi e specifiche tecniche; costi elevati (il costo chilometrico di una ricarica per la mia PHEV per uso solo elettrico è identico a quello della benzina); colonne inaccessibili, posti occupati da sosta selvaggia e via discorrendo. Di questo passo ultimi siamo e ultimi resteremo.

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