- Alla fine sarà l’esecutivo di destra a ignorare l’«italianità» della ex compagnia aerea di bandiera nata mandando in porto la più complicata delle privatizzazioni di un’azienda di stato.
- In 74 anni di vita i bilanci di Alitalia, ora Ita, hanno chiuso in attivo solo tre volte. Addio quindi, e senza alcun rimpianto, bandiera o non bandiera.
- Lufthansa punta al nord Italia ma le serve anche un hub a sud come Fiumicino. Cerca però di proteggersi dalle cause legali ereditate per via del fallimento di Alitalia.
Ormai ci siamo, è praticamente fatta: Ita Airways sta per essere privatizzata, ad acquistarla saranno i tedeschi di Lufthansa. Certo, il riflesso pavloviano di chi segue le vicende della compagnia aerea nata dalle ceneri della fallita Alitalia è scetticismo misto a cinismo.
La notizia che l’azienda controllata al 100 per cento dal Mef fosse sul punto di essere ceduta ad acquirenti esteri era circolata spesso negli ultimi tempi, eppure stavolta pare ci siamo veramente. Oggi 18 gennaio «i potenziali offerenti non potranno più accedere al data room (cioè i dati finanziari) di Ita», ha dichiarato una fonte governativa anonima a Reuters.
Tradotto significa che Lufthansa – numero uno del trasporto aereo in Europa con 17,5 miliardi di euro di fatturato seguita da Air France-Klm – rimane l’unico potenziale acquirente credibile. Il nuovo esecutivo di destra di Giorgia Meloni è fiducioso di concludere l’affare. Anche perché il ministro del Tesoro, il leghista Giancarlo Giorgetti, era favorevole a una privatizzazione, e a una cessione ai tedeschi, anche prima di far parte dell’attuale governo.
L’obiettivo è perdere 250 milioni
Nel 2022, secondo le prime stime, Ita avrebbe registrato una perdita di circa 470 milioni di euro mentre nel 2023 l’obiettivo è un margine operativo lordo in rosso di 250 milioni. Con questi numeri, fonti del settore stimano il valore di cessione della compagnia a circa mezzo miliardo di euro (ammontava a un miliardo a gennaio 2021). Secondo l’ipotesi più concreta Lufthansa potrebbe inizialmente acquisire una quota del 40 per cento attraverso un aumento di capitale tra 300 e 350 milioni di euro (quindi la valutazione salirebbe a 850 milioni). Prima fase di una procedura che alla fine vedrebbe i tedeschi salire al 100 per cento.
Eventualità del resto prevista nel decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) pubblicato in Gazzetta ufficiale il 2 gennaio 2023 e firmato da Meloni, Giorgetti e Urso. «In ragione degli obiettivi di sviluppo della società, l’acquisizione della partecipazione può essere rappresentata, in tutto o in parte, dalla sottoscrizione dell’acquirente di uno o più aumenti di capitale, anche riservati, deliberati da Ita Spa».
Un articolo unico regola l’agognata privatizzazione della compagnia aerea di stato, di cui nemmeno Mario Draghi era stato capace in trattative durate mesi, senza esito, con il fondo Certares Management, Air France-Klm, Delta Air Lines e la compagnia di navigazione svizzera MSC. Un punto importante del Dpcm stabilisce la supervisione futura del governo italiano, quando si afferma che il compratore deve garantire «il piano industriale di sviluppo e crescita di Ita, con particolare attenzione agli hub nazionali, all’ingresso in mercati strategici e all’incremento delle rotte a lungo raggio».
Il nuovo socio industriale Lufthansa dovrà quindi rispondere affermativamente ai punti chiave posti come paletti dal Mef: la spinta verso un network internazionale, soprattutto sul lungo raggio perché il governo ritiene che l’Italia debba essere destinazione “diretta” e non raggiunta attraverso scali intermedi; il mantenimento dei livelli occupazionali; e la tutela degli hub nazionali come Fiumicino, Malpensa e Linate.
In 74 anni 3 bilanci positivi
L’Italia sta quindi per liberarsi, se va bene, di una compagnia aerea “di bandiera” che per decenni è stata quintessenza della malagestione dei manager, della corruzione politica e della miopia di sindacati conniventi.
L’Alitalia, secondo le stime più attendibili, è costata ai cittadini italiani una quantità immensa di soldi. Il 14 ottobre 2021 l’ultimo volo Cagliari-Roma AZ1586 delle 22:05 fu il finale di partita di un vettore che nell’ultimo mezzo secolo, stando a un report di Mediobanca, ha pesato in totale sulle tasche dei contribuenti per circa 13 miliardi di euro. In 74 anni di vita i bilanci hanno chiuso in attivo solo tre volte. Addio quindi, e senza alcun rimpianto, bandiera o non bandiera.
La cessione di Ita è una buona notizia anche per Lufthansa, il più grande gruppo aereo europeo. Il ceo Carsten Spohr era interessato all’Italia da tempo, visto che siamo il loro secondo più grande mercato nell’Ue, hanno già la controllata Air Dolomiti oltre che voli propri. Espandere questa presenza puntando (non ufficialmente) al Nord Italia “economicamente forte” fa parte di una strategia ben definita, soprattutto perché è in atto un gran rimescolamento di carte sui mercati globali (i tedeschi non hanno chance di avere quote significative sulle rotte in Asia, dove dominano i marchi dell’aviazione civile di Cina, Giappone e Corea).
«Nei prossimi 30 anni dovremo guardare di più nell’emisfero australe», disse all’ultima assemblea degli azionisti il capo di Lufthansa. Ciò significa, ad esempio, l’Africa. «Tuttavia, questo è possibile solo in misura limitata dai nostri hub settentrionali. Abbiamo ancora bisogno di un hub nel sud», confermò Spohr.
La società con sede a Colonia guarda anche alla portoghese Tap, nazionalizzata durante la crisi e ora in fase di privatizzazione dal governo di Lisbona. Ma sud per la Germania significa soprattutto l’Italia con Roma – Fiumicino, obiettivo per i passeggeri che viaggiano con tratte a lungo raggio dall’estero, per lavoro o vacanze.
Con azionista unico il Mef, Ita ha chiuso il 2022 con oltre 10 milioni di passeggeri trasportati. Per il 2023 prevede l’entrata in servizio di 39 nuovi aeromobili – insieme al ritiro di 14 aerei obsoleti – il che porterà la flotta a 96 velivoli.
Questo forte investimento, su cui i tedeschi potrebbero non essere totalmente d’accordo, ha portato alla decisione del nuovo presidente, Antonino Turicchi (che gestirà la vendita) e dell’amministratore delegato Fabio Lazzerini, di dare il via a un nuovo piano che prevede sulla carta quest’anno l’assunzione di circa 1.250 tra piloti e assistenti di volo (aumenteranno di 350 e 900 unità) rispetto all’attuale organico di 3.600 dipendenti. Si spiega che al primo posto tra le preoccupazioni di Lufthansa sia proprio l’eccesso di personale.
Le trattative sulle condizioni
Ita continua a perdere soldi e il governo Meloni non ha un euro in più da iniettare come denaro fresco, senza contare l’irritazione degli italiani per il continuo sperpero di denaro pubblico. Lufthansa deve quindi iniziare subito a far perdere di meno il business, e poi a portarlo in attivo. Il che significa ristrutturare. Gestire rotte in perdita solo perché fa comodo alla politica italiana non ha più alcun senso. Infatti il management di Lufthansa ha chiarito agli sherpa di palazzo Chigi e del ministero dell’Economia di voler procedere con l’acquisizione ma solo se il rischio economico è gestibile.
Domanda: è effettivamente gestibile? Visti i precedenti, Lufthansa starebbe trattando con Roma per ottenere una sorta di paracadute semmai dovessero verificarsi scenari negativi. In particolare, secondo Bloomberg, «il vettore tedesco sta cercando di ottenere l’opzione di ritirarsi da un’acquisizione al 100 per cento nel caso in cui l’impresa non dovesse funzionare».
Lufthansa ha già messo al lavoro il proprio ufficio di legal counsel e un paio di grandi studi di avvocati corporate, l’obiettivo è proteggersi da potenziali problemi (tutti tipicamente italiani) derivanti dal progetto di acquisizione di un vettore nato da un fallimento. In particolare, il possibile effetto domino rappresentato da oltre mille cause intentate al tribunale del lavoro dagli ex dipendenti Alitalia non riassunti da Ita e attualmente in cassa integrazione.
Se i giudici riconoscessero la “continuità aziendale” tra Alitalia e Ita, gli ex lavoratori dovrebbero essere reintegrati nella nuova compagnia, per cui i tedeschi chiedono garanzie: vorrebbero che il Mef si facesse carico dei relativi oneri (il che è altamente improbabile). La “clausola di salvaguardia” e l’ipotesi di exit, oggetto di trattative riservate, da una parte soffocherebbe i timori dei sindacati ma dall’altra farebbe rivedere un film già visto mille volte, con grande scorno di tutte le parti in causa.
Resta un’ultima constatazione, non del tutto secondaria in termini simbolici, ideologici e di governance. Cioè: di fronte agli allarmi lanciati da esponenti politici di destra sulla perdita dell’«italianità» della ex compagnia di bandiera, è sintomatico che sia proprio il governo (sovranista) di Giorgia Meloni a mandare in porta, si spera, la più complicata delle privatizzazioni di un’azienda di stato.
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