- Il 3 settembre i giudici della Corte di giustizia dell’Unione europea hanno dato ragione alla società francese Vivendi che aveva acquisito il 28,8 per cento di Mediaset ma era stata bloccata da una delibera dell’Agcom fondata sulla legge Gasparri.
- Il 16 dicembre il Tar deve recepire la sentenza, ma il governo sta preparando una norma per fare in modo che l’Agcom possa di nuovo aprire un’istruttoria per valutare il rispetto del pluralismo nei casi di partecipazioni rilevanti come quelle di Vivendi.
- La norma richiama ancora la legge Gasparri, che però la Corte Ue ha bocciato in toto considerandola «non idonea a difendere il pluralismo».
Salvare Mediaset da una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, farle guadagnare almeno sei mesi, in tempo per l’entrata in vigore nell’aprile 2021 del sistema del voto maggiorato che ne proteggerà il controllo, passando la palla all’Autorità garante per le comunicazioni. La maggioranza di governo ha deciso di inserire nel decreto Ristori o nella legge di bilancio, una norma che proteggerebbe l’azienda della famiglia Berlusconi da una eventuale scalata del gruppo delle telecomunicazioni francese Vivendi del finanziere Vincent Bolloré, azionista anche di Tim. L’obiettivo è ritardare l’applicazione delle decisioni dei giudici europei che il 3 settembre scorso hanno concluso che la delibera dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) che nel 2017 ha bloccato l’acquisizione delle quote di Mediaset da parte della società francese viola il diritto dell’Unione europea.
La scadenza del 16 dicembre
Vivendi ha venduto a terzi il suo 19,9 per cento, ma si è anche rivolta al tribunale amministrativo regionale del Lazio (Tar) che a sua volta si era rivolto alla Corte Ue. La prossima udienza del caso al Tar è fissata per il 16 dicembre: allora i giudici amministrativi dovrebbero recepire la decisione dei colleghi europei, restituendo a Vivendi i suoi diritti negati di azionista. Ma la norma messa a punto dal ministero dello sviluppo economico tenta di rimettere la questione nelle mani dell’Agcom.
La relazione illustrativa diffusa ieri spiega che «qualora un soggetto si trovi ad operare contemporaneamente nei mercati delle comunicazioni elettroniche (come quello di Tim, ndr) e nel Sic (il sistema integrato delle comunicazioni previsto dalla legge Gasparri) anche attraverso partecipazioni azionarie rilevanti», l’Agcom svolge un’istruttoria, da concludersi entro il termine di sei mesi dall’avvio del procedimento «volta a verificare la sussistenza di effetti distorsivi o di posizioni comunque lesive del pluralismo, tenendo conto fra l’altro, dei ricavi delle barriere all’ingresso nonché del livello di concorrenza nei mercati coinvolti».
La legge Gasparri non rispetta il diritto Ue
L’impostazione è sempre nel solco della legge Gasparri che già prevedeva nel decreto del 2005 ad essa collegato, che infatti è citato nella relazione, il possibile intervento di istruttoria dell’Agcom. Ma proprio la legge Gasparri è stata profondamente contestata dai giudici europei. La Corte Ue ha concluso che prevedendo delle soglie per le aziende europee violava la libertà di stabilimento prevista dai trattati e ha anche aggiunto che seppure questa libertà avrebbe potuto essere limitata nel nome della tutela del pluralismo dell’informazione e dei media, la legge Gasparri «non è idonea a conseguire tale obiettivo». Il principio a cui per anni la politica italiana ha fatto finta di credere, ha trovato nei giudici europei una bocciatura senza appello. Il diritto europeo, infatti, «stabilisce una chiara distinzione tra la produzione di contenuti e la loro trasmissione», quello italiano invece mette tutto insieme nel calderone, «non facendo riferimento ai collegamenti tra la produzione e la trasmissione dei contenuti».
I difensori della norma salva Mediaset dicono che si rivolge alle piattaforme digitali. Ma la Corte Ue aveva pensato anche a loro, invitando ad allargare le maglie della definizione delle comunicazioni elettroniche, inserendo la telefonia mobile, i servizi collegati a internet e la radiodiffusione satellitare, divenuti ormai «la principale via di accesso ai media». Dopo quel pronunciamento il parlamento avrebbe dovuto mettere in agenda una riforma. Ma allargando la definizione del settore avrebbe reso ancora più legittima la posizione di Vivendi. E soprattutto una riforma sarebbe difficilmente arrivata in tempo per il 16 dicembre. Così ci si affida all’Agcom, come si era fatto in altri casi come il trasferimento delle frequenze di Rete4, e a un ministero dello sviluppo controllato dal Movimento Cinque stelle.
© Riproduzione riservata