Dal palco della festa di Atreju, una Giorgia Meloni in trance oratoria si è di nuovo aggrappata alla buona novella di un’economia in salute.

Anzi, di più. Perché nonostante il contesto globale sospeso tra guerre e protezionismo, la crescita italiana è «superiore alla media dell’area dell’euro» e per la prima volta nella storia il nostro paese è diventato «la quarta nazione esportatrice al mondo».

Poco importa, ai fini della retorica meloniana, che i numeri, quelli delle statistiche, smentiscano i dati propagandati dalla premier. Il Pil italiano, dicono concordi gli analisti di Bankitalia, Istat e Ocse chiuderà il 2024 con un incremento non superiore allo 0,5 per cento. mentre la zona della moneta unica arriverà allo 0,7 per cento, prevede la Bce, e secondo la Commissione di Bruxelles l’aumento arriverà allo 0,8 per cento.

Bugie da esportazione

Quanto all’Italia che avrebbe scalato la classifica dei paesi esportatori, la notizia è vecchia ormai di qualche mese ed è anche quantomeno esagerata, visto che, come è stato da più parti segnalato, il quarto posto è stato raggiunto ad agosto (e solo ad agosto) superando Corea e Giappone per effetto del rafforzamento dell’euro sulle altre valute. I dati sull’andamento dell’export sono invece tutt’altro che esaltanti: a settembre il calo delle esportazioni ha toccato il 2 per cento rispetto all’anno scorso.

Purtroppo, però, non è solo questione di propaganda e cifre sparate a caso. Il problema vero, per il futuro del paese, è che la manovra faticosamente messa insieme dal governo, e ora al centro di un infinito taglia e cuci in Parlamento, non sembra in grado di dare nuova spinta al motore della crescita.

L’attenzione dei partiti in queste ultime settimane si è concentrata su ritocchi e mancette varie che di sicuro non possono fare la differenza.

La Lega, per esempio, dovrebbe portare a casa l’aumento da 30 mila a 35 mila del tetto del reddito di lavoro dipendente per le partite Iva che accedono al regime forfettario e quindi alla flat tax per i guadagni da lavoro autonomo. E’ un favore, l’ennesimo, a una categoria cara alla destra, ma con ben pochi benefici sulla crescita del Pil.

Inutili sgravi

D’altra parte, dopo una lunga battaglia di lobby, Confindustria ha ottenuto che nella prossima legge di bilancio sia inserita una revisione degli sgravi fiscali che vanno sotto il nome di Ires premiale, vale a dire un taglio di quattro punti percentuali dell’imposta sugli utili societari in caso che i profitti vengano in parte impiegati per nuovi investimenti.

La misura richiesta a gran voce dagli industriali serve da parziale risarcimento per l’abolizione, l’anno scorso, dell’Ace (Aiuto alla crescita economica), che invece premiava le aziende che mettevano a patrimonio una quota degli utili.

Il nuovo intervento sarà però di gran lunga inferiore rispetto al valore degli sgravi garantiti dall’Ace (4,6 miliardi in totale) e a quanto si è capito non dovrebbe arrivare a 500 milioni. Se poi si considera che la norma in manovra detta una serie di stringenti condizioni per accedere all’Ires premiale, è facile prevedere che la platea delle aziende che potranno usufruire dello sgravio fiscale è destinata a restringersi di molto. Viene richiesto, tra l’altro, di rinunciare alla cassa integrazione per il 2024 e il 2025, aumentando la forza lavoro di almeno l’uno per cento e mantenendo in azienda almeno l’80 per cento dei profitti reinvestendone il 30 per cento in beni strumentali.

In manovra è atteso anche il rifinanziamento del fondo automotive promesso dal governo, dopo che nella prima versione della legge di bilancio era stato tagliato dell’80 per cento lo stanziamento di 5,8 miliardi disponibile fino al 2030. Semmai arriveranno nuove risorse, difficilmente si andrà oltre i 200 milioni sui 800 previsti per il 2025. Davvero poca cosa, considerate le gravi difficoltà a cui sta andando incontro il settore automobilistico.

Ancora a proposito di investimenti, il governo è stato costretto a correre ai ripari dopo il flop del pacchetto di agevolazioni Transizione 5,0 che in teoria doveva servire a favorire tramite crediti d’imposta il finanziamento di progetti, tra l’altro, per il risparmio energetico. Resta da vedere se la nuova formula riuscirà a convincere gli imprenditori. Sembra difficile, però, che provvedimenti di questo tipo riescano a ridare fiato alle aziende che si trovano a fare i conti con una congiuntura di mese in mese più difficile.

Investimenti giù

“Da alcuni trimestri anche gli investimenti in macchinari e attrezzature hanno iniziato ad arretrare - si legge nel report appena pubblica da Ref ricerche, che segnala una “frenata dell’economia” che sta iniziando “a modificare progressivamente le condizioni nelle quali operano le imprese”. Uno scenario confermato dall’analisi dell’Istat che prevede una crescita degli investimenti non superiore allo 0,4 per cento nel 2024, una crescita che l’anno prossimo, nonostante la spinta del Pnrr e del calo dei tassi, dovrebbe azzerarsi.

Con questi chiari di luna pare ormai certo che il Pil possa riservare le sorprese (s’intende positive) che solo un mese fa annunciava Giancarlo Giorgetti, costretto a correggere il tiro già nei giorni scorsi. Fallito l’obiettivo di una crescita all’1 per cento accreditata dal ministro dell’Economia, ora si spera nel 2025, anche se in base alle stime più accreditate (Bankitalia, Ocse, Istat) difficilmente si andrà oltre lo 0,8-0,9 per cento contro l’1,2 previsto dal governo. Troppo poco anche per allentare il peso sulle finanze pubbliche di un debito pubblico che continua ad aumentare e a ottobre, secondo i dati resi noti ieri dalla Banca d’Italia, ha raggiunto il record storico di 2.981 miliardi, a un passo dalla soglia psicologica dei 3 mila miliardi.

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