Il governo non ha reali armi di pressione per convincere il gruppo ad aumentare la produzione in Italia. Comanda il socio francese anche perché la produzione è stata quasi tutta trasferita su piattaforme Peugeot
I proclami di Giorgia Meloni in parlamento contro Stellantis e in difesa dell’”italianità” rientrano in un colossale gioco delle parti. Meloni sa bene che il governo ha poche armi per indurre Stellantis a investire di più in Italia: il fatto che il gruppo sia quasi monopolista della produzione di auto in Italia (Ferrari e Lamborghini a parte) lo mette in una posizione di forza rispetto al governo attuale così come ai precedenti.
Qualche esempio? Due anni fa il governo di Mario Draghi aveva disegnato su misura per la gamma di vetture Stellantis gli incentivi alla vendita di nuove auto, a costo di una minore considerazione per l’ambiente; il governo Meloni si appresta, con il ministro Urso, a confermare la stessa struttura aumentando i fondi in misura significativa.
L’esecutivo finanzierà con 369 milioni di euro l’investimento che Stellantis sta facendo per trasformare lo stabilimento di motori di Termoli in una fabbrica di batterie; questi contributi sono la prassi, perché è attualmente l’unico modo che i paesi hanno per assicurarsi gli investimenti in una congiuntura spietata di barriere commerciali e di lotta tutti contro tutti.
I governi di ogni colore hanno sempre approvato i provvedimenti di cassa integrazione straordinaria (cigs) che hanno di fatto consentito di tenere aperti stabilimenti che già Sergio Marchionne considerava anti-economici; Marchionne stesso disse chiaramente agli analisti finanziari che «chiudere una fabbrica ci costerebbe molto di più».
Grazie a cigs e contratti di solidarietà, Stellantis, come già Fca, è l’unico costruttore che per convertire una fabbrica da un modello all’altro tiene fermi gli impianti per mesi o addirittura anni. Oltre dieci anni fa, quando lavoravo al Sole 24 Ore, avevo calcolato in quasi due miliardi di euro il risparmio per Fca sull’arco di un decennio.
Made in Marocco
Gli aiuti, insomma, ci sono. Con quale obiettivo? Meloni ha rilanciato l’ambizione di «tornare a produrre almeno un milione di auto in Italia», obiettivo che sarà al centro del “tavolo” del ministro Urso con azienda e sindacati il prossimo primo febbraio. L’ultima volta che tale livello venne raggiunto in Italia (furgoni compresi) fu nel 2017; per arrivarci, Stellantis dovrebbe aumentare di un terzo la produzione rispetto alle 751mila unità del 2023.
La presidente del Consiglio ha aggiunto che «se Stellantis vuole vendere nel mondo un ‘gioiello italiano’, allora quel gioiello deve essere fatto qui». Meloni pensava forse agli spot pubblicitari Fiat pieni di riferimenti alla “dolce vita”, alla “land of creativity and style”, con tanto di Canal grande e di Colosseo, per modelli come la Fiat 600 (prodotta in Polonia su piattaforma Peugeot) o il quadriciclo Fiat Topolino, assemblato in Marocco su base Citroën Ami?
Vendere auto straniere come se fossero italiane richiede una certa faccia tosta, ma Stellantis non è l’unica ad aver delocalizzato buona parte della produzione: la strategia è stata perseguita per decenni da Fiat e Peugeot, ma anche dalla Renault e in parte dai costruttori tedeschi. In Europa nessuna auto piccola o medio-piccola è più prodotta da tempo in paesi come Italia, Francia o Germania (fa eccezione la Panda a Pomigliano).
Il numero di impianti di assemblaggio Peugeot in Francia alla vigilia della fusione con Fca era di cinque contro i sei di Fca in Italia (al netto della joint venture nei furgoni proprio con Peugeot), ma dai primi usciva il doppio di veicoli: 1,1 milioni contro 525mila.
La francese Renault, guidata dal manager italiano Luca De Meo, ha cinque fabbriche di auto in Francia, ma tolti i veicoli commerciali e le sportive Alpine ne ha in realtà solo due, a Douai e Maubeuge, nonostante l’azionista di maggioranza sia lo stato francese.
Vince la Francia
Fca si è presentata alla fusione con Peugeot in condizioni precarie, con una gamma prodotti ridotta all’osso e avendo investito il minimo sull’elettrificazione; la sua debolezza era particolarmente evidente in Europa, dove nel 2019 (ultimo anno “normale” prima del Covid) aveva venduto meno di un milione di vetture contro i 2,5 milioni del gruppo Peugeot.
Anche per questo rapporto di forze, dopo le nozze è stato chiaro da subito che nel Vecchio continente avrebbe “comandato” Parigi, che ha messo a disposizione le basi tecniche su cui basare i nuovi modelli anche per i marchi italiani. La Fiat 600 lanciata l’anno scorso e le tre auto che dovrebbero arrivare nel 2024 – Lancia Ypsilon, Alfa Romeo Milano e Fiat Panda – sono tutte prodotte all’estero su piattaforme ex Peugeot
Tornando a Stellantis, il trasferimento quasi totale della produzione Fiat su piattaforme francesi ha determinato un contraccolpo anche sulla filiera dei fornitori, avvantaggiando nelle gare per i nuovi progetti chi già prima lavorava con Parigi; per tornare competitivi, secondo Stellantis, i fornitori italiani esclusi dovrebbero investire in paesi a costi più bassi, come l’Europa dell’Est o il Maghreb, dove il gruppo Peugeot è già presente con una fabbrica dal 2019. Di qui la lettera inviata ai fornitori italiani per invitarli ad aprire in Marocco.
Tagli d’organico
Per quanto riguarda le fabbriche ex Fiat in Italia, oltre a usare la Cig, Stellantis ha ridotto l’organico di 7mila unità fra il 2021 e il 2022; tutte uscite concordate con i sindacati. All’inizio del 2023 è stato siglato un altro accordo che prevedeva 1.820 esuberi, e a fine anno l’azienda ha inviato una lettera a 15mila dipendenti offrendo incentivi consistenti (fino a 140mila euro) per le dimissioni.
Stellantis taglia anche in Francia: proprio questa settimana ha annunciato l’eliminazione di 600 contatti a tempo alla fabbrica di Mulhouse.
La strategia dei tagli incentivati era stata adottata da Carlos Tavares, numero uno di Stellantis, anche dopo la fusione tra Peugeot e Opel: il gruppo Peugeot aveva registrato per esempio oneri straordinari di quasi un miliardo di euro nel 2017 e di oltre un miliardo nel 2018, in gran parte legate alle riduzioni di personale.
Incognita elettrica
È possibile invertire questo declino? Per Stellantis la scommessa con maggiori probabilità di riuscita è quella sui marchi di gamma più alta: Maserati e Alfa Romeo sono stati oggetto di piani di rilancio da parte di Fca, tutti con scarso successo, e il forte ritardo sull’elettrificazione li ha penalizzati entrambi. Risultato: delle tre fabbriche che fino all’anno scorso producevano Maserati, una è stata chiusa (quella di Grugliasco) e le altre due (Mirafiori e Modena) vedono ripetuti periodi di Cig; lo stesso vale per lo stabilimento di Cassino, da cui escono sia Alfa Romeo che Maserati.
Le notizie che arrivano non sono buone: Maserati ha annunciato proprio ieri lo slittamento al 2027/2028 di due modelli chiave in versione a batterie che dovrebbero essere prodotti dall’anno prossimo a Mirafiori, il Suv Levante e la berlina Quattroporte.
Stellantis ha annunciato investimenti sulle auto elettriche anche a Melfi, per produrre vetture anche con marchi francesi a partire dalla fine di quest’anno. Anche in questo caso, però, la piattaforma su cui verranno costruite è di origine Peugeot, e i progettisti italiani non faranno che adattarla alle caratteristiche delle varie Lancia e Alfa Romeo; ciò evidenzia uno degli aspetti più negativi dell’emigrazione dell’ex Fiat: insieme alla proprietà, sono emigrati non solo i centri decisionali ma anche le competenze progettuali del gruppo.
A proposito di elettrificazione, poi, non dimentichiamo che appena prima della fusione di Fca in Stellantis, gli Agnelli hanno venduto a un fondo americano la Magneti Marelli, storico leader dei componenti auto.
Di possibili investimenti esteri nel settore si parla da anni ma senza nulla di concreto; paesi come Germania e Spagna hanno saputo muoversi meglio, e per ora anche dall’attuale esecutivo sono arrivate solo parole. I cinesi del resto arriveranno in Europa per produrre auto a batterie, ed è poco probabile che lo facciano in uno dei paesi europei più ostili alla transizione elettrica.
Il rischio è che il gioco delle parti prosegua e accompagni la filiera verso il declino, con i sindacati a gestire gli incentivi alle dimissioni e i prepensionamenti.
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