I partner chiudono alle richieste di Roma per modificare il trattato sul Meccanismo di stabilità, prima della ratifica italiana. Lo stallo complica la trattativa con Bruxelles per ottenere più flessibilità sul bilancio
Per mettersi in pari Matteo Salvini ci ha messo giusto un giorno, qualcosa meno. Il governo di Giorgia Meloni punta i piedi sul Mes e rimanda la ratifica a improbabili correzioni in corsa del trattato da parte degli 19 partner dell’Eurozona? Ecco che il leader della Lega, uscito malconcio dalle elezioni, si butta a capofitto nella polemica, rispolvera il vecchio armamentario contro “i burocrati di Bruxelles” e scandisce: «È una follia, se lo approvino loro, se vogliono, perché a noi non serve». Loro sarebbero gli altri 19 governi dei paesi dell’area dell’euro, che però il Meccanismo europeo di stabilità (meglio noto come Mes) lo hanno già approvato anni fa, con tanto di ratifica dei parlamenti nazionali. Dettaglio trascurabile, questo, perché non serve alla polemica del giorno.
Rischio irrilevanza
Le urla di Salvini sono l’effetto di un riflesso pavloviano. Relegato al ruolo di junior partner nella maggioranza di governo, il vicepremier è costretto dagli eventi a tenere alta la temperatura della polemica, per non cadere ancora più giù nel pozzo buio dell’irrilevanza politica.
Così, mentre Meloni punta i piedi in Europa, alza la voce e pretende un «giusto ruolo» per l’Italia nella partita delle nomine, ecco che il leader della Lega torna alla carica sul Mes, che nella retorica populista rappresenta un feticcio dell’Europa delle banche, dei falchi di Francoforte che vogliono affamare l’Italia.
La premier dice no? Salvini deve urlare no e ancora no. Poco importa, a quanto pare, entrare nel merito della questione. Discutere se il Mes è davvero uno strumento utile per il nostro paese, come ha più volte dichiarato lo stesso governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, scelto per l’incarico proprio da Meloni.
Nel consueto gioco della politica estera piegata alle esigenze della propaganda a uso interno, conta solo il posizionamento tattico del momento, il calcolo del dare e dell’avere nel bilancio di giornata. Poi c’è la partita europea, quella dove si gioca la credibilità del paese. E qui il governo non regge il confronto neppure con la nazionale di Spalletti.
Aperture presunte
Giovedì sera, al termine della riunione dell’Eurogruppo, Giancarlo Giorgetti si è arrampicato su una scivolosa china di dichiarazioni, e successive precisazioni, per spiegare la posizione dell’Italia, accennando a non meglio precisate aperture dei partner a modifiche nel trattato sul Mes.
Venerdì, dopo il secondo giorno di incontri con i colleghi responsabili delle Finanze dell’Unione, il ministro dell’Economia è tornato sull’argomento per dire che «il parlamento non è nelle condizioni di approvare il Mes». E quindi non ci sarà nessuna ratifica se il Meccanismo «non cambia natura come abbiamo sempre chiesto».
Stallo totale, dunque, perché al momento nessuno dei partner europei sembra disposto a concedere alcunché. Che fare? «Giorgetti ha sollevato il tema del trattamento dell’Italia nel Consiglio europeo», hanno fatto sapere già mercoledì sera fonti di Roma. Il messaggio è chiaro: «Se ci trattate male resta anche il nostro veto sul Mes».
A prima vista sembra la stessa tattica già adottata nella seconda metà dell’anno scorso, quando il governo Meloni tentò il tutto per tutto nella trattativa sul nuovo Patto di stabilità. Non finì granché bene. A dicembre, i 27 governi dell’Unione, compreso quello italiano, diedero via libera alle nuove regole di bilancio. «Un compromesso», lo definì Giorgetti, che «andava valutato nel tempo».
Parlamento contro
All’epoca non era servito a nulla giocare su due tavoli, quello del Patto e l’altro del Mes. Quest’ultimo, il 21 dicembre scorso, è stato respinto con un voto del parlamento e l’Italia ha finito per trovarsi doppiamente isolata. Costretta ad accettare un compromesso al ribasso, mentre restava l’unico paese a rifiutare il Mes. Una nota di Palazzo Chigi commentò così il disco rosso alla ratifica: «La scelta del Parlamento italiano può essere l’occasione per avviare una riflessione in sede europea su nuove ed eventuali modifiche al trattato, più utili all’intera Eurozona».
A sei mesi di distanza, quelle parole cadono ancora nel vuoto per mancanza di interlocutori. Gli altri governi fanno pressioni sull’Italia per una ratifica attesa da anni, prima di discutere eventuali correzioni. «Per andare avanti è vitale rispettare gli impegni», ha detto mercoledì il presidente dell’Eurogruppo, Pascal Donohe, ricordando implicitamente che a gennaio del 2021, negli ultimi giorni del governo Conte II, Roma aveva approvato il Mes.
Giorgetti invece si è presentato agli incontri di questa settimana con i ministri chiedendo modifiche al trattato come condizione per l’adesione italiana al trattato, protestando, già che c’era, per il trattamento ricevuto da Meloni nel negoziato per le nomine nella nuova Commissione.
Nel racconto del ministro, il Mes è diventato il “sale sulla ferita” (ha detto proprio così) di un’Italia umiliata e offesa. Al momento, però, nessun governo in Europa sembra disposto a soccorrere Roma. Tutto questo proprio mentre all’orizzonte ci sono le trattative con Bruxelles sulla traiettoria di rientro del deficit. Messo all’angolo da un disavanzo record in Europa e con un debito che nei prossimi anni resterà attorno alla soglia d’allarme del 140 per cento del Pil, il governo non potrà fare a meno di chiedere maggiore flessibilità, anche in vista di una manovra di bilancio che costerà almeno 20 miliardi, tutti da trovare. Altro sale sulla ferita, commenterebbe Giorgetti.
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