Le cifre ormai sono note da tempo. Per confermare il taglio del cuneo fiscale e la riduzione delle aliquote Irpef anche per il 2025, il governo dovrà trovare almeno 18 miliardi di euro. E secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), altri 13,5 miliardi serviranno per rispettare il programma di aggiustamento dei conti pubblici previsto nel Patto di stabilità europeo. Il totale fa più di 30 miliardi, una somma che rischia seriamente di azzerare i margini di manovra su altri tavoli, dalle pensioni alla sanità, che invece richiedono interventi urgenti.

In tempo di campagna elettorale, il governo ovviamente parla d’altro, ma Giorgia Meloni e, soprattutto, il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti sanno bene che la partita più importante si giocherà in autunno, con il piano fiscale strutturale da presentare a Bruxelles entro il 20 settembre e poi con la manovra finanziaria per il 2025. I soldi, per ora, non ci sono, ma neppure si intravedono piani credibili per recuperarli. Tutto questo mentre ci si avvicina alle scadenze decisive e aumenta la pressione sul ministero dell’Economia.

Prima ancora del polverone sul redditometro, va quindi inserito in questo scenario ad alta tensione anche lo scontro tutto interno alla maggioranza di governo sul Superbonus, con Giorgetti che ha finalmente ottenuto di chiudere una volta per tutte il rubinetto degli sgravi fiscali salvandosi dalla bocciatura in Parlamento solo grazie al sostegno gentilmente offerto dai renziani di Italia Viva. L’impalcatura traballante dei conti pubblici non avrebbe retto alle scosse provocate da ulteriori spese per i bonus edilizi, ma la toppa su questa voce di bilancio di certo non basta a garantire una navigazione tranquilla verso la manovra d’autunno.

Debito boom

Il tempo stringe, mentre l’asticella del debito cresce di mese in mese. Secondo l’ultimo dato pubblicato da Bankitalia a marzo siamo arrivati al massimo storico di 2.895 miliardi di euro, 23 miliardi in più rispetto a febbraio, quando già era stato segnalato un aumento analogo, 23 miliardi.

Ecco allora che nel sentiero stretto degli interventi possibili per riportare sotto controllo la finanza pubblica, possibilmente senza perdere consensi nella propria base elettorale, diventa sempre più facile sbandare, esponendosi a clamorose figuracce.

Molti osservatori, per esempio, spiegano così anche lo scivolone del viceministro dell’Economia, Maurizio Leo sul redditometro, un tema che per banali principi di prudenza e di opportunità andrebbe accuratamente evitato a due settimane da un appuntamento elettorale.

D’altra parte, però, evocare una stretta nei controlli poteva servire a incentivare un maggior numero di contribuenti a venire a patti con l’Agenzia delle entrate mediante l’adesione al concordato preventivo biennale, introdotto proprio da quest’anno dalla riforma fiscale fortemente voluta proprio da Leo.

Secondo quanto lo stesso viceministro ha dichiarato più volte nel recente passato, il concordato fiscale è uno dei principali strumenti che dovrebbe garantire entrate supplementari che andrebbero a finanziare la conferma del taglio del cuneo fiscale e della riduzione delle aliquote Irpef. Questo almeno è quanto spera il governo, anche se in merito si registra un diffuso scetticismo tra gli esperti di questioni tributarie.

Autogol

Ecco, allora, che per aumentare la pressione sui contribuenti, Leo avrebbe dato il via al decreto attuativo che specifica le modalità di funzionamento del redditometro, uno strumento mai abolito formalmente, ma da anni in attesa di un provvedimento che lo rendesse di nuovo applicabile.

La mossa si è trasformata in un doppio autogol. Sul fronte politico ha servito un assist a Lega e Forza Italia, costringendo Meloni a intervenire in prima persona per sconfessare un collega di partito a lei da sempre vicinissimo. L’improvvido intervento di Leo ha così finito per alzare il velo sulle difficoltà del governo sul fronte delle entrate.

A dispetto degli annunci dell’esecutivo, peraltro smentiti dalle stesse relazioni tecniche degli uffici ministeriali, il concordato preventivo biennale potrebbe garantire un gettito di poco superiore al miliardo di euro nel primo anno di applicazione. La svolta non arriverà neppure dalla global minimum tax per le multinazionali (incasso previsto inferiore ai 400 milioni) e tantomeno dall’applicazione della cosiddetta cooperative compliance destinata alle imprese.

Eppure, da mesi Leo va dicendo che la sua riforma fiscale darà nuovo impulso alle entrate, garantendo quindi un contributo decisivo per mantenere le promesse su cuneo fiscale e riforma Irpef.

Dopo gli sgravi per le famiglie a basso reddito, il viceministro promette anche interventi per ridurre il peso delle imposte per i contribuenti che dichiarano più di 50 mila euro.

Solo che i soldi, per adesso, non ci sono. E neppure si capisce come il governo riuscirà a procurarseli. Di sicuro il fiasco sul redditometro costringerà Leo a cambiare il suo piano. Ammesso che ne avesse uno.

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