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La decisione Europea di bloccare la produzione di auto con motore endotermico dal 2035 è rilevante perché il futuro dell’auto tocca le tasche di tutti. Una decisione oggetto di svariate critiche: molte le prive di fondamento, altre corrette ma irrilevanti.
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La svolta imposta dalla decisione europea verso l’auto elettrica viene percepita solo per ragioni ambientali. Ma c’è un’altra ragione, ben più valida, dietro la decisione.
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Il futuro dell’industria automobilistica non si gioca in Europa ma in Cina e negli Stati Uniti, i due mercati dominanti dove la scelta dell’elettrico appare ormai irreversibile.
In un’economia aperta e integrata come l’Italia, paese membro dell’Unione europea, decisioni che ci appaiono distanti hanno invece un grande impatto sulla nostra quotidianità.
Il ruolo di Roma dovrebbe essere quello di inserirsi con efficacia nelle dinamiche internazionali, comprenderne le implicazioni, sviluppare una visione strategica su come indirizzarle in modo a noi favorevole, predisporre quanto necessario per meglio adeguarsi al cambiamento, e spiegarlo ai cittadini. Niente di questo sta avvenendo.
Da parte di questo governo c’è ancora la tendenza ad alimentare l’ostilità verso “Bruxelles”, dove bisogna andare a pestare i pugni sul tavolo, e a vedere l’integrazione economica e finanziaria come una minaccia agli interessi nazionali; mai come un’opportunità. Un atteggiamento che ci danneggia perché dall’integrazione e dall’Europa non si può tornare indietro, né ci converrebbe semmai fosse possibile.
La decisione europea di bloccare la produzione di auto con motore endotermico dal 2035 e la querelle col governo italiano sui biocarburanti ne sono un perfetto esempio: perché il futuro dell’auto tocca le tasche di tutti. La decisione europea è stata oggetto di svariate critiche: molte prive di fondamento, altre corrette ma irrilevanti.
La norma sarebbe un cattivo esempio di dirigismo tecnocratico: giusto stabilire obiettivi strategici, ma bisogna lasciare libere le imprese di decidere come raggiungerli. Non aiuta l’ambiente. Discrimina i consumatori meno abbienti e i paesi dell’Unione a più basso reddito per via del maggior costo delle auto elettriche.
Non esiste un’infrastruttura adeguata per alimentarle. Distrugge posti di lavoro perché il motore elettrico richiede molti meno componenti, né l’Europa produce a sufficienza quelli con il maggior a maggior valore aggiunto. E il divieto ai biocarburanti dopo il 2035 impedisce la riduzione di emissioni del vecchio parco macchine esistente in quel momento.
Questione di competitività
Una data certa per la fine del motore endotermico è invece essenziale per la competitività dell’industria europea nella transizione all’elettrico: nessun produttore, senza questa certezza, farebbe mai i massicci investimenti necessari, oltre ai costi della rottamazione dei vecchi impianti e filiere di produzione, perché troppi rischiosi visto il lungo orizzonte temporale, e per via del timore che l’uscita dall’endotermico potrebbe avvantaggiare il concorrente che decidesse di presidiare quella nicchia.
La data certa crea parità di condizioni, aumentando concorrenza ed efficienza. Alla lunga risolve anche il problema del costo elevato dell’auto elettrica: la certezza che tutti produrranno solo veicoli elettrici garantisce le economie di scala che servono per abbattere i costi.
E’ sempre stato così: quanti si potevano permettere un televisore negli anni cinquanta, un cellulare agli inizi degli ottanta o un’auto all’inizio del secolo? Elon Musk anticipa i tempi e ha lanciato una dirompente guerra dei prezzi perché “il desiderio della gente di possedere una Tesla è molto alto, ma il limite è la loro capacità di pagarla”.
Nell’immediato danneggia i profitti ma è essenziale per aumentare le quote di mercato di Tesla e beneficiare delle economie di scala. Inoltre, annuncia l’obiettivo di produrre un’auto da 25mila dollari, che richiederà un nuovo processo produttivo, meno pezzi, meno sofisticazione, più automazione; perché altrimenti le economie di scala andranno a vantaggio dei produttori cinesi che già dominano a casa loro. Le case europee sono ancora molto lontane dall’obiettivo di Musk: la nuova ID.3 di Volkswagen, il maggior produttore europeo, costa circa 40mila dollari, anche se il margine è pressoché nullo.
Le stesse argomentazioni valgono per la mancanza di un’infrastruttura di ricarica capillare: non c’è perché ci sono poche auto elettriche, ma con la certezza che nel 2035 si produrranno solo quelle, le società elettriche hanno tutto l’interesse e il tempo per costruirla, e quelle energetiche per sostituire le pompe di benzina (anche l’Eni?). La transizione verso l’auto elettrica, avendo molte meno parti e componenti, avrà pesanti ripercussioni sull’occupazione del settore, e su tutto l’indotto dell’auto: che ha un peso rilevante nell’economia italiana.
Inoltre, è probabile la tendenza all’integrazione verticale sul modello della cinese BYD (produce auto, pannelli solari, semiconduttori, automazione, batterie), e che Tesla in parte cerca di replicare. È un costo per il paese innegabile, ma ineludibile come con ogni discontinuità dirompente: basti pensare all’impatto di internet e la digitalizzazione, una fortuna per alcuni, una iattura per altri. La storia è piena di imprese che si riconvertono, altre si aggregano, alcune soccombono.
Ma spetta agli imprenditori avere la corretta visione del futuro, rischiare e investire; e al governo indirizzare e sostenere il cambiamento. La data certa per la morte del motore endotermico serve anche a questo: ridurre le incertezze, indicare la strada alle imprese e ai governi, dando loro il tempo per adattarsi. La critica in questo caso è fuorviante, anche perché si vedono solo i costi del cambiamento, non le opportunità: se l’industria europea non saprà coglierle, il Green Deal sia un vero deal solo per la Cina.
Le ragioni dietro alla scelta
La data del 2035 è conseguenza dell’obiettivo del Net-Zero nel 2050, visto i 15 anni di vita residua delle auto a motore endotermico. La svolta verso l’auto elettrica viene quindi percepita solo per ragioni ambientali.
Di qui la critica che l’impatto sul clima della decisione europea è risibile. I trasporti rappresentano infatti solo il 10 per cento delle emissioni in Europa, che a sua volta contribuisce per l’8 per cento alle emissioni globali; le auto elettriche sono Net-Zero solo se l’elettricità immessa nella rete è sua volta Net-Zero; e se si considera l’intero ciclo di vita dell’auto elettrica (inclusa la sua produzione) i vantaggi in termini di emissioni non sono così evidenti.
Ma c’è un’altra ragione, ben più valida, dietro la decisione di puntare esclusivamente sull’auto elettrica: il futuro dell’industria automobilistica non si gioca in Europa ma in Cina e negli Stati Uniti, i due mercati dominanti dove la scelta dell’elettrico appare irreversibile.
Non è un caso che l’auto elettrica sia oggi appannaggio di Tesla, di tante start up americane, e soprattutto dell’industria dell’auto e delle batterie cinesi. Già ora mercato cinese e americano assieme costituiscono il 41 per cento del fatturato di Stellantis, 49 di Bmw, 42 di Mercedes e 34 di Volkswagen. Per l’industria dell’auto europea trasmigrare all’elettrico, recuperare i ritardi e competere con successo in quei mercati è diventata una questione esistenziale.
La decisione Europea deve essere vista quindi come un coordinamento strategico per indirizzare gli investimenti del settore: sarà poi la capacità di innovare e proporre auto di successo di ciascuna azienda a determinare chi avrà successo.
Il governo italiano e quello tedesco si sono poi opposti alla ratifica della norma chiedendo come merce di scambio la deroga per i motori endotermici alimentati con e-fuels e biocarburanti.
Gli e-fuels sono una tecnologia non sperimentata, estremamente costosa, specie rispetto all’idrogeno verde da cui deriva (sono prodotti con idrogeno verde ricomposto con CO2 catturato da un’altra produzione). I biocarburanti sono derivati da prodotti vegetali e biomasse, che ne limitano la capacità produttiva per vasti usi come le auto. La richiesta tedesca era sostenuta dalla Porsche; quella italiana dall’Eni che è uno dei maggiori produttori di biocarburanti. Tutti i paesi difendono le proprie imprese, ma non a costo perdere di vista la visione complessiva degli interessi economici del paese, sperperando capitale politico nei contesti internazionali. La Germania, forse, se lo può permettere. l’Italia no.
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