Sul patto di stabilità l’Italia non deve avere fretta: la scadenza del primo gennaio non è importante e può essere disinnescata dalla Commissione. Conta di più costruire un’alleanza su una “regola d’oro” che scomputi gli investimenti dal deficit
Con l’avvicinarsi di una legge di bilancio che sarà un esercizio di equilibrismo e con la crescita che rallenta, rosicchiando il tesoretto che via XX Settembre pensava di avere a disposizione, il governo italiano si risveglia, riscoprendo il dibattito sulla riforma delle regole europee. Al meeting di Cl di Rimini, i ministri Giancarlo Giorgetti e Raffaele Fitto hanno suonato l'allarme sul possibile ritorno del patto di stabilità, sospeso dal 2020.
Le vecchie regole non funzionano
Anche se il Diario Europeo si è occupato di questo dibattito più volte, è utile fare un riassunto della situazione. Con la pandemia, nel marzo 2020, la Commissione europea ha immediatamente attivato la clausola di sospensione del patto di stabilità e crescita, per consentire ai paesi europei di reagire con le politiche di bilancio alla crisi sanitaria ed economica. Il patto in realtà era già fortemente criticato, tanto che la Commissione aveva già lanciato un processo di consultazione sulla sua revisione.
Alcuni, tra cui chi scrive, avevano criticato il patto anche durante la “grande” (e illusoria) convergenza, nei primi anni Duemila. Ma i difetti sono divenuti evidenti con la crisi del debito sovrano, quando le regole europee, invece di consentire la messa in sicurezza di economia e conti pubblici, hanno sortito l’effetto opposto: l’austerità ha affossato l’economia dei paesi cosiddetti periferici (la Grecia innanzitutto, ma anche l’Italia, il Portogallo e in misura minore la Spagna) senza per questo renderne più sostenibili le finanze pubbliche.
Moltissimi economisti (tra cui quelli della Commissione) oggi sono d’accordo nel ritenere che, oltre ad obbligare i paesi ad attuare politiche procicliche (una restrizione di bilancio in situazione di crisi economica), le regole esistenti impediscono l’investimento pubblico, le politiche industriali e il contrasto alla disuguaglianza. Soprattutto, rendono le leggi di bilancio esercizi di limatura sui decimali di punto percentuale del disavanzo invece che dei momenti di programmazione delle politiche pubbliche per rispondere alle grandi sfide cui siamo confrontati.
La Commissione, che negli anni Dieci aveva messo tutto il suo peso dietro alle politiche di austerità, è da lodare per il cambiamento di prospettiva, che emerge da una proposta di lavoro avanzata alla fine del 2022. Senza entrare nei dettagli, quella proposta, sia pur piena di difetti, abbandonava l’idea che il solo faro delle politiche pubbliche fosse la riduzione del debito e immaginava una regola che desse ampi margini ad ogni paese per disegnare le proprie politiche di bilancio in maniera autonoma e su orizzonti pluriannuali, fin tanto che la sostenibilità delle finanze pubbliche fosse garantita.
...ma rischiano di tornare
Purtroppo, pur essendosi fatti discreti in seguito ai disastri degli anni Dieci ed essere stati costretti dalla pandemia ad accettare un ruolo più attivo per le politiche di bilancio, i falchi delle finanze pubbliche, i cosiddetti “frugali”, hanno rialzato la testa appena possibile. Così, il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner nella primavera scorsa ha pubblicato un corto testo che richiamava all’ordine la Commissione poche settimane prima che questa mettesse sul tavolo una proposta formale.
Proposta che infatti, rispetto al documento del novembre 2022, segnava un ritorno del faro della riduzione del debito e di obiettivi annuali per il deficit. Tutto questo è avvenuto nel sostanziale silenzio dei governi italiani ma anche della Francia e della Spagna. Non ricordo un solo intervento dei dirigenti di questi paesi in sostegno della Commissione sotto attacco dai paesi frugali.
Oggi qualcosa si muove. Torna l’idea di una “regola d”oro”, che consenta di scomputare dal disavanzo alcuni investimenti (transizione ecologica, digitale e difesa, per ottenere il via libera dei paesi dell’Est) sulla quale Italia, Francia e Spagna provano con difficoltà a coordinarsi in vista della riunione dei ministri delle finanze delle prossime settimane. Anche il governo tedesco, vista la crisi di crescita e obsolescenza industriale e infrastrutturale che attanaglia il paese, potrebbe cedere qualcosa, soprattutto se in cambio ottenesse un ammorbidimento della normativa sugli aiuti di stato.
Prendersi il tempo
Insomma, forse i falchi non hanno ancora vinto. Ora il rischio principale è che ci si accontenti di un compromesso al ribasso, per paura che il primo gennaio 2024 rientri in vigore il vecchio patto. Il mondo cambia velocemente, e il rischio di irrilevanza economia e geopolitica dell’Europa non è mai stato così alto.
Le politiche industriali e l’investimento pubblico saranno la principale leva per garantire la crescita e il posizionamento sui settori d’avvenire. I governi cinese e americano lo hanno capito da anni, mentre noi continuiamo a formulare programmi ambiziosi che non finanziamo adeguatamente, tirando in tutte le direzioni una coperta che rimane inesorabilmente corta.
Non ci si può accontentare di qualche aggiustamento cosmetico di un quadro che rimane orientato alla riduzione della spesa e del debito pubblico. Vista la posta in gioco, la scadenza del primo gennaio dovrebbe essere l’ultimo dei nostri problemi. La nuova regola rimarrà in vigore per anni, ed è meglio una buona regola adottata in ritardo che una cattiva adottata in tempo. È talmente banale che sembra assurdo doverlo sottolineare. Se si riuscisse ad intavolare una trattativa seria e approfondita andando oltre l’autunno, in attesa della sua conclusione la Commissione potrebbe estendere la clausola di salvaguardia o adottare tutta la flessibilità necessaria a non far mordere il vecchio patto.
Certo, abbiamo avuto tre anni, ed è deprimente che su questo tema, molto più importante di tanti altri, si sia aspettato l’ultimo momento per muoversi. Gli unici visibili nel dibattito europeo sono stati la Commissione, che ha fatto il suo lavoro, e i frugali, Germania in testa, che hanno occupato il terreno. I governi italiani e quello francese non sono pervenuti, e oggi paghiamo il prezzo di questa assenza. La miopia continua ad essere il filo rosso che lega le classi dirigenti dei nostri paesi.
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