Nel dibattito sembra poco presente la dimensione macroeconomica: è il monte salari il fattore discriminante, più che la sua distribuzione
Nel dibattito sul salario minimo sembra poco presente la dimensione macroeconomica.
Se negli ultimi vent’anni abbiamo avuto uno scenario di spesa pubblica consistente, ma di bassi salari e bassa crescita economica rispetto agli altri paesi europei di riferimento, sembra probabile che in Italia sia venuto a mancare, o sia stato troppo debole, l’effetto moltiplicatore dei consumi dei lavoratori dipendenti.
Ora, accanto ad importanti aspetti di equità sociale (siamo in uno scenario di alti profitti e rendite e di bassi salari), a livello macroeconomico è il monte salari il fattore discriminante, più che la sua distribuzione.
Se questo è vero, sia le priorità sociali che di crescita economica sembrerebbe concentrarsi più sull’assorbimento degli “eserciti industriali di riserva” che sui livelli salariali dei già occupati. Questo anche perché la forma più solida e duratura per accrescere i salari è quella di aumentare la forza contrattuale dei lavoratori (quindi la loro scarsità relativa), e in secondo luogo perché comunque ogni nuovo occupato aumenta il monte salari, per modesta che sia la sua retribuzione.
La soluzione del sostegno pubblico ai redditi insufficienti certo toglie qualche lavoratore “unskilled” dal mercato, ma il suo obiettivo primario è la lotta alla povertà assoluta, non l’occupazione, ed è una politica molto onerosa per le casse pubbliche, e anche per questo sembra ragionevole concentrare strumenti di questo tipo sull’obiettivo primario, che è di natura distributiva.
Il mercato
Vediamo ora quali sono i maggiori “eserciti industriali di riserva”. Semplificando molto, sembrano tre: le donne, i disoccupati del Mezzogiorno (dove si concentra entrambi i fenomeni), e i migranti. Si tratta di categorie in generale scarsamente qualificate, come risulta anche dal diffuso “mismatching” presente nel mercato del lavoro nelle ragioni più sviluppate. Sono anche categorie scarsamente difese e difendibili per via sindacale, quindi con una forza contrattuale intrinsecamente modesta, e addirittura in parte assenti dal mercato del lavoro (si pensi soprattutto alle donne nel Mezzogiorno).
Per questa ragione occorre una particolare cautela nell’introduzione del salario minimo affinché questo non abbia impatti negativi sui livelli occupazionali di categorie così deboli.
Le politiche possibili sono relativamente ovvie: innanzitutto sostegni all’occupazione femminile nel Mezzogiorno con investimenti in asili nido e nel pieno tempo scolastico, ed eventualmente in qualche agevolazione fiscale incentivante.
In secondo luogo, sostegno agli investimenti al sud che creino occupazione stabile, quindi certo non grandi opere pubbliche che sono capital intensive e creano occupazione skilled ed “a termine” (e la linea del governo attuale, ma anche del Pnrr, va in senso esattamente contrario).
Dati i vincoli di bilancio, destinati a permanere, azioni pubbliche dirette di sostegno all’occupazione dovrebbero limitarsi a settori labour intensive, che richiedano skills limitati, e che comunque i privati non intraprenderebbero. La manutenzione idrogeologica del territorio, per esempio, emerge come settore che risponde a tutte e tre queste caratteristiche, oltre ad avere ricadute ambientali positive.
E questa politica potrebbe non essere legata ad occupazione pubblica diretta, sempre a rischio di derive clientelistiche (si pensi ai “forestali” nel Mezzogiorno), ma promossa attraverso sistemi di affidamento in gara. Per i migranti, diventa essenziale una azione sul modello tedesco, di formazione coordinata con l’industria potenzialmente in grado di servirsene.
Fin qui, l’ovvio. Ma c’è una politica di validità più generale che non quella diretta specificamente agli “eserciti industriali di riserva”, che ovvia forse non è: aumentare la concorrenza (essenziale anche come politica contro l’inflazione). La concorrenza dilata le attività produttive e quindi l’occupazione, e incentiva l’innovazione tecnologica, fattore essenziale per la stabilità dell’occupazione e per la crescita economica.
Ha solo un possibile aspetto negativo: in alcuni casi può ridurre i salari (dove i monopolisti pubblici e privati si sono “comprarti” il sostegno politico degli addetti trasferendo loro una quota delle rendite sotto forma di alte retribuzioni).
Ma in un contesto di ragionevole tutela sindacale del lavoro e di aumento dell’occupazione, sembra davvero poter aumentare il monte salari.
Una soluzione diversa sarebbe quella di puntare sul settore pubblico come massimo investitore in innovazione tecnologica, capace di mettere in moto crescita e occupazione anche nel settore privato, senza appesantire il bilancio pubblico grazie alle ricadute “a valle” (soluzione che potremmo chiamare “alla Mazzuccato” dal nome di chi con più insistenza la ha proposta)
Ma non sono alle viste strategie rilevanti che ragionevolmente uno Stato scarsamente “tecnologico” come quello italiano possa percorrere. E gli investimenti nella conversione ambientale, pur necessari, non sembra che fino ad ora possano avere moltiplicatori occupazionali di rilievo, se non nella citata manutenzione del territorio (si pensi per esempio all’elettrificazione dei trasporti stradali, che è prevista ridurre molto l’occupazione nel settore).
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