Si fa un gran parlare di quando i tassi di interesse svolteranno verso il basso. Da un lato questo mostra che molti son convinti che le banche centrali son giunte al culmine della stretta.
Il che, soprattutto in Usa, può essere un’ipotesi ragionevole. Dall’altro, danno grande rilievo a chissà quale calo dei tassi. Il che non è invece convincente.
Innanzitutto perché i tassi, pur essendo, per fortuna, molto più alti del livello medio degli ultimi due decenni, non sono anormalmente alti, considerato il tasso di inflazione che li deve guidare.
L’indice dei prezzi al consumo dell’eurozona, rispetto al 2022, in dicembre 2023 è cresciuto del 2,9% e, nella media dell’anno, del 5,4%. Togliendo dall’indice i prezzi dell’energia, l’inflazione in dicembre era ancora al 4%. Se si sottraggono questi numeri dal livello dei tassi a breve controllati dalla BCE, il 4%, il costo reale atteso del denaro, che deve continuare a contenere l’inflazione, non è alto.
In secondo luogo, se anche le banche centrali decidessero presto di ridurre i tassi, si tratterebbe, in assenza di nuove emergenze congiunturali, di una piccola discesa.
Forse che mezzo punto in meno del tasso interbancario fra un anno, oltre a beneficiare un poco chi ha un mutuo sulla casa, farebbe gran differenza per gli investimenti e la crescita dell’economia nel suo complesso?
O invece l’importanza data alla possibile, prossima discesa dei tassi significa l’aspettativa che possano scendere molto, che possa tornare il denaro gratis e la sovrabbondanza di liquidità che c’è stata per lunghi lustri, che ha favorito spese inefficienti e nutrito l’incendio inflazionistico che ora cerchiamo di spegnere? Se così fosse, la battaglia per tornare alla stabilità dei prezzi non sarebbe vinta.
Inoltre, se negli ultimi due anni i tassi sono molto cresciuti, la liquidità sui mercati è scesa molto meno.
Nel bilancio della BCE, divenuto gigantesco, ci sono ancora 5000 miliardi di titoli acquistati con i successivi “quantitative easing”, solo 200 miliardi in meno di un anno fa e qualcuno di più che a fine 2021. A fronte di questi titoli la banca centrale ha creato altrettanta moneta, che si è poi moltiplicata tramite i prestiti bancari.
Nonostante la notevole riduzione dei prestiti della BCE alle banche, l’altro grande canale di creazione di moneta, la liquidità dei mercati rimane dunque ampia, trova sfoghi in azzardi speculativi, rigonfia innaturalmente la borsa azionaria.
Quindi, anche se fosse giunta a termine la stretta monetaria sui tassi, il riassorbimento necessario della moneta in eccesso dovrebbe mantenere la politica monetaria poco accomodante ancora per diverso tempo.
Più che abbassare svelto i tassi, dovremmo chiedere a gran voce che, battuta l’inflazione, le banche centrali annuncino la loro strategia per il medio-lungo periodo, quando, dopo tanti anni, torneremo monetariamente normali e con prezzi stabili.
Dal 2022, durante l’acrobatico percorso per abbattere, tardivamente e rapidamente, un’inflazione grande e improvvisa, in un sistema ingombro da un eccesso di moneta, era naturale che le politiche monetarie “improvvisassero” le decisioni, solo dopo aver visto gli ultimi dati.
Ora però serve che ci dicano il livello dei tassi di interesse, al netto dell’inflazione, che sarà ritenuto normale in tempi normali. E vorremmo un impegno credibile delle autorità monetarie a non voler più regolare con mosse miracolose il ciclo economico reale, i normali su e giù del tasso di crescita della produzione e dell’occupazione.
Non è loro compito. Promettendo di non farlo, ci aiuteranno a credere che non vedremo più tassi di interesse e quantità di moneta abnormi per lunghi periodi, com’è successo fin dagli anni seguenti la crisi finanziaria del 2007-8. La quale, a sua volta, fu in parte causata da banche centrali con ambizioni diverse da quella di mantenere la stabilità monetaria.
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