Il nuovo patto proposto dalla Commissione combina due obiettivi che possono essere utilizzati dai due schieramenti in campo. Introduce elementi di flessibilità «politica», ciò che piace ai paesi col debito, ma mantiene gli stessi parametri obiettivo del vecchio patto, ciò che può soddisfare i paesi austeri
Ci sono molte probabilità che il nuovo patto di stabilità verrà approvato entro la fine del 2023 e che sarà molto vicino alla proposta della Commissione. Il motivo è semplice: alla vigilia delle elezioni europee non sembra possibile che torni il vecchio patto (come potrebbero volere ì paese frugali) e neppure che se ne prolunghi la sospensione (come potrebbe andar bene per i paesi a forte debito).
Nessuna delle due parti in causa può darla vinta all’altra prima delle elezioni, sicché la soluzione più semplice è quella di scaricare tutte le responsabilità sulla Commissione europea adottando la formula proposta, magari con piccolissimi correttivi.
Il nuovo patto proposto dalla Commissione combina due obiettivi che possono essere utilizzati dai due schieramenti in campo. Introduce elementi di flessibilità «politica», ciò che piace ai paesi col debito, ma mantiene gli stessi parametri obiettivo del vecchio patto, ciò che può soddisfare i paesi austeri.
Questa soluzione può andare bene per entrambe le parti e non pregiudica alcuno sviluppo. Se la nuova Commissione, che verrà dopo le elezioni europee, fosse più disponibile alla flessibilità, avrebbe gli strumenti per adottarla. Se invece fosse più preoccupata dei rischi di squilibrio, potrebbe sempre stringere i freni e riprodurre politiche non dissimili da quelle del vecchio patto, anch’esso attuato in modo flessibile.
Rischio tassi
Mentre gli economisti italiani si dividono tra quanti sono a favore della flessibilità per favorire una crescita economica e quanti invece ritengono che il nostro paese avrebbe bisogno di regole rigide per affrontare una volta per tutte gli squilibri di finanza pubblica, c’è da constatare che, nuovo o vecchio patto, poco cambierà per il nostro paese.
Con un debito pubblico superiore al 140 per cento del Pil, per l’Italia non ci potrà essere flessibilità. L’aumento dei tassi di interesse, che comunque si è già realizzato e che potrebbe continuare, impone un’attenzione particolare alle dinamiche del debito pubblico per evitare una spirale pericolosa, fatta di aumenti dello spread, che generano in prospettiva aumenti di spesa per interessi, da cui deriva una maggiore difficoltà a contenere il debito pubblico e, quindi, nuovi aumenti dello spread in un circuito perverso da cui diviene difficile uscire senza un severo controllo della finanza pubblica.
Anche l’ipotesi, poco praticabile, di esclusione di alcune spese dal computo del disavanzo (che si tratti degli investimenti del Pnrr o delle spese militari o altro) che il nostro governo persegue, non potrebbe aprire nuovi spazi.
Nell’improbabile ipotesi che l’Europa accettasse di escludere alcune spese dal disavanzo, è evidente che in questo caso la Commissione avrebbe una ben minore disponibilità a concedere flessibilità e verrebbe chiesto al nostro paese di non usare questo spazio per spese correnti destinate ad accrescere il debito.
In queste condizioni, la via per la prossima legge di finanza appare molto stretta, come già sottolineato da Salvatore Bragantini su questo giornale. Se si vogliono confermare gli interventi già in essere, come il taglio del cuneo fiscale sui salari e il sostegno ai bassi redditi, non sarà possibile né abbassare le tasse per nessuna categoria, né allargare lo spazio per nuove pensioni di anzianità con deroghe al sistema vigente. Il sostegno all’economia dovrà derivare essenzialmente dall’attuazione dei progetti di Pnrr, il cui completamento è necessario per poter usufruire dei finanziamenti europei.
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