L’economia della Germania va sempre peggio. Nel 2024 il Pil calerà dello 0,1 per cento, ha comunicato ieri l’istituto di ricerca tedesco Ifo, e nel 2025 si prevede che la ripresa sarà debole e lenta, per una crescita nei dodici mesi dello 0,8 per cento. La notizia preoccupa il governo di Berlino, ovviamente, messo sotto pressione dall’avanzata dell’estrema destra, ma proietta ombre poco rassicuranti anche per la tenuta dei conti di Roma.

La Germania è il principale partner commerciale dell’Italia, con un export nel 2023 di quasi 75 miliardi di euro, e la stagnazione della sua economia rischia di frenare anche la crescita del nostro Pil, una minaccia che si è già fatta concreta nei mesi scorsi segnati da una produzione industriale stagnante. La stessa Bce, nel bollettino economico pubblicato ieri, è tornata a segnalare la tendenza al ribasso della crescita economica in Europa.

Lo scenario, insomma, non è rassicurante per il governo di Giorgia Meloni, che tra un proclama e l’altro sulla crescita record del nostro Pil dovrà mettere a punto il Piano strutturale di bilancio da inviare a Bruxelles e, a seguire, la manovra per il 2025. Tutti i parametri di riferimento, dal debito al deficit, vengono infatti calcolati in rapporto al Pil, ma se quest’ultimo aumenta meno del previsto far quadrare i conti diventa più complicato.

Poco importa, a questo punto, se per il 2024 verrà centrato l’obiettivo di crescita dell’1 per cento fissato dall’esecutivo, smentendo così le previsioni meno ottimistiche formulate da altri osservatori, come Banca d’Italia e Ocse, che non vanno oltre lo 0,8 per cento. La sfida decisiva, infatti, si giocherà nei prossimi anni, quando, secondo il governo, la crescita dovrebbe accelerare fino all’1,2 per cento del 2025 e anche del 2026.

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti porterà oggi in Consiglio dei ministri la versione finale del Piano da inviare a Bruxelles, che disegna la traiettoria dei conti pubblici per i prossimi sette anni sulla base di una serie di parametri e di vincoli imposti dal nuovo Patto di stabilità.

Conti nella nebbia

La promessa più impegnativa è quella di tenere sotto controllo la spesa primaria netta, cioè quella da cui sono esclusi gli oneri per il pagamento degli interessi sui titoli di stato e di alcune poste straordinarie legate alla congiuntura e a categorie di investimenti come quelli per la sanità. Giorgetti punta a non superare un aumento medio annuo dell’1,5 per cento in rapporto al Pil nel prossimo triennio.

Un traguardo di per sé tutt’altro che facile da raggiungere, ma lo sforzo sarà ancora maggiore se la crescita si rivelerà inferiore al previsto. Un esercizio ad alto coefficiente di difficoltà sarà anche quello di tagliare il deficit di 0,5 punti percentuali di Pil, per portarlo, nei piani del governo, al 3,2 per cento nel 2025. Per riuscirci, saranno necessari risparmi di spesa, a maggior ragione se verranno confermati il taglio del cuneo fiscale e l’indicizzazione delle pensioni con le stesse modalità dell’anno scorso, destinando anche maggiori risorse alla sanità.

Considerato che in base alle regole Ue non si potranno finanziare le spese facendo ricorso a nuovo deficit, l’unica soluzione è trovare entrate extra, visto che dalla spending review dei ministeri arriveranno risorse limitate. Più che incerto appare anche il contributo del concordato preventivo biennale. E allora si capisce perché al governo non resta che fare affidamento sui “contributi volontari” dei settori che più hanno guadagnato in questi anni. Niente tasse straordinarie, piuttosto un obolo da banche, assicurazioni e aziende energetiche, in tempi e modi tutti da definire.

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