Il Piano nazionale di ripresa e resilienza avrebbe dovuto essere uno strumento utile a raggiungere la parità di genere ma, a tre anni dalla sua approvazione, è difficile monitorare lo stato di avanzamento dei progetti perché mancano i dati. E mentre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni rivendica sul suo profilo Instagram l’ottimo lavoro svolto dal governo, rimangono grandi nodi da sciogliere, primo tra tutti la scarsa trasparenza dell’operato.

A che punto siamo quindi con il lavoro del Pnrr sulla parità? «A questa domanda è impossibile rispondere in modo preciso perché non disponiamo di dati sufficienti e appropriati per capire se stiamo andando nella direzione giusta – dice Giulia Sudano, presidente di Period think tank, associazione che promuove l’equità di genere attraverso un approccio femminista ai dati –. La sensazione è che le azioni messe in atto siano insufficienti, le uniche due misure dirette sono quella sull’imprenditoria femminile e la certificazione per la parità di genere».

Non disporre dei dati significa non poter inquadrare il fenomeno né individuare la strategia con cui raggiungere gli obiettivi e nemmeno fare una valutazione a posteriori del lavoro svolto. Con questa consapevolezza Period think tank già nel 2021 aveva lanciato la campagna #datipercontare per chiedere alle istituzioni di rendere aperti e pubblici i parametri volti a misurare il gap di genere. Ma la situazione non è cambiata. Il report #datipercontare: statistiche e indicatori di genere per un PNRR equo presentato il 9 luglio evidenzia l’assenza di indicatori per misurare il reale impatto del Pnrr e denuncia lo scarso investimento volto al raggiungimento della parità. Analizzando il rapporto tra gli investimenti e gli obiettivi di sviluppo sostenibile, infatti, emerge che l’obiettivo 5 sulla parità di genere è il meno finanziato: non raggiunge un miliardo di euro rispetto ai 194 totali.

Le (troppe) deroghe

I presupposti però erano buoni. L’articolo 47 del decreto-legge 77/2021 aveva introdotto norme per favorire l’inclusione delle donne sul posto di lavoro, il cosiddetto gender procurement. Prevedeva che, per poter partecipare alle gare pubbliche, almeno il 30 per cento delle assunzioni dovesse essere destinato alle donne. Sarebbe stato un traguardo importante che avrebbe potuto migliorare il tasso di occupazione femminile, fermo al 55 per cento, avvicinando l’Italia alla media europea (69,3 per cento). Le cose però sono andate in modo diverso, già nel 2023, infatti, la fondazione indipendente Openpolis aveva evidenziato che il 69 per cento dei bandi aperti non aveva previsto quote di assunzioni riservate alle donne e, un anno dopo, la situazione è rimasta pressoché la stessa.

Il mancato rispetto delle quote è reso possibile dalle linee guida per l’attuazione dell’articolo 47, che hanno aperto la strada a possibilità di deroga con clausole molto generiche. Il risultato è che, come denuncia Period, il 57 per cento dei progetti è andato in deroga totale – cioè non contiene nessun riferimento al gender procurement – e per il 60 per cento dei bandi in deroga non è disponibile la motivazione. Con la conseguenza che l’obiettivo di favorire l’aumento del tasso di occupazione femminile, in particolare nei settori ancora a prevalenza maschile, risulta al momento disatteso.

È una pratica che coinvolge tutto il territorio italiano con picchi che in alcune zone superano il 70 per cento del totale dei bandi. E anche nelle situazioni migliori la percentuale resta molto elevata, basti pensare che la regione più virtuosa è il Trentino Alto-Adige che comunque raggiunge il 43 per cento. «Per questo – continua Sudano – chiediamo di prevedere clausole più specifiche e non rendere così generica la possibilità di derogare».

Premialità facoltative

Un altro problema è connesso ai punteggi aggiuntivi per l’utilizzo dei fondi (le cosiddette premialità) legati all’inclusione lavorativa delle donne. Secondo il report, le premialità di genere «sono presenti sono nel 3,3 per cento del totale dei bandi analizzati». Manca l’obbligo normativo di applicazione con la conseguenza che «l’attuazione del Pnrr sta tradendo l’impegno originario di garantire la parità di genere come priorità del piano». Per questo motivo Period chiede che l’inserimento delle misure premiali nei bandi di gara degli appalti sia obbligatorio, «dando così la possibilità ad aziende che già si sono attivate con misure per favorire la parità di vedersi riconosciuti dei punti aggiuntivi in fase di valutazione».

Dai dati alla società

Il problema della mancanza dei dati non riguarda solo l’ambito della parità di genere. Fin dall’apertura dei lavori del Pnrr Openpolis ha denunciato la scarsa trasparenza in tutti gli ambiti dell’operato, motivo per cui ha inoltrato al governo e agli altri soggetti coinvolti quattro richieste di accesso generalizzato agli atti (Foia, uno strumento per richiedere alle amministrazioni documenti di interesse pubblico ndr). «Riteniamo che questa mancanza di trasparenza, a due anni e mezzo dalla conclusione del piano, sia inaccettabile», denunciavano a fine aprile.

Se tra i principali obiettivi c’è davvero quello di colmare il divario di genere, la richiesta di dati trasparenti e disaggregati rappresenta il punto di partenza per mettere in atto un cambiamento concreto. «Stiamo lottando sulla leva del Pnrr per spingere le istituzioni pubbliche ad attuare un cambio di passo – conclude Sudano –. Sono cambiamenti lenti, ma nei paesi in cui sono stati introdotti le cose poi cambiano davvero».

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