Si dice che tutti gli imperi siano finiti quando la spesa pubblica per gli interessi sul debito supera quella per la difesa. La sopravvivenza dell’Europa comporterà tassi reali a lungo termine elevati, ma il gap di produttività che ci penalizza rispetto agli Usa renderà più acuti i costi economici
Le questioni
Servirebbe una riflessione sul dogma del 2% di inflazione e del patto di stabilità
In un’intrigante analisi della situazione geopolitica, Nial Ferguson ricorre alla metafora del Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, una saga che si apre con Sauron, Signore delle Tenebre, che trama con i cavalieri neri, i troll, gli orchi, i mannari, il ragno gigante Shelob, per soggiogare i Popoli Liberi della Terra di Mezzo: gli Hobbit, abitanti dello Shire, reminiscenza della campagna inglese, insieme a Elfi e Nani.
Gli Hobbit amano la pace, la de-escalation e, a modo loro, sono isolazionisti. Ma due di loro, Frodo e Sam, decidono di rischiare la propria vita per distruggere l’Anello del Potere, sconfiggendo così l’Asse del Male e scongiurando la minaccia mortale ai Popoli Liberi. Nella saga di Tolkien, iniziata nel 1937, molti hanno visto una premonizione del pericolo per le libere democrazie occidentali dell’asse tra la Germania nazista, l’Italia fascista e il Giappone imperiale. Il riferimento ai pacifici Hobbit che trovano il coraggio di andare a combattere superando la loro naturale tendenza alla de-escalation era una chiara critica al pacifismo e alla politica accondiscendente di Neville Chamberlain alla Conferenza di Monaco di fronte all’invasione tedesca della Cecoslovacchia, sintetizzata dalla frase «Perché farci coinvolgere in una disputa per un paese di cui non sappiamo niente?». Poco importa se la citazione sia vera o apocrifa: la stessa dichiarazione è stata fatta a proposito dell’Ucraina da esponenti repubblicani che si opponevano all’invio di armi.
Asse contro asse
Tolkien fu straordinariamente presciente. Fortunatamente oggi non siamo a rischio di una Terza Guerra mondiale ma siamo entrati senza averne piena contezza nella Seconda Guerra Fredda (SGF). La Prima (PGF) cominciò con il tentativo di invasione della Corea del Nord; la SGF con quella dell’Ucraina da parte della Russia. Allora l’occidente doveva fronteggiare il blocco Unione Sovietica-Cina, assieme a Corea del Nord e al fronte arabo della Guerra del Kippur che minacciava Israele. Oggi abbiamo lo stesso blocco Russo-Cinese, a parti invertite, con la Cina al comando che minaccia Taiwan, l’Iran con i suoi sodali che minacciano Israele, più la solita Corea. La Cina non ha mai condannato l’invasione Russa, a cui ha dichiarato «amicizia senza limiti», e fornito un sostegno economico indispensabile. La Cina compra quasi tutto il petrolio dell’Iran, rendendo superflue le sanzioni occidentali; l’Iran fornisce armi e droni alla Russia per la guerra all’Ucraina in cambio di tecnologia militare da usare nel Medio Oriente, come pure la Corea del Nord.
L’analisi è opinabile, ma è indiscutibile che si sia formato un asse tra paesi che si oppongono alle democrazie occidentali e che si delinea una SGF, simile per molti versi alla PGF. Quello che qui interessa sono le profonde conseguenze economiche di una guerra fredda.
Con il crollo del muro di Berlino l’occidente incassò il «dividendo della pace» ovvero la possibilità di riallocare a scopo produttivo le enormi risorse dedicate alla difesa, il sostegno alla crescita derivante dall’espansione del commercio internazionale verso la Cina e tutti i paesi del blocco ex-sovietico, e i benefici della libertà di movimento di persone e capitali. Oggi dovremmo cominciare a pensare che dovremo pagare una tassa per la SGF. E non sarà esigua: impossibile prevedere quanto a lungo durerà, ma i cicli politici sono lunghi, basti pensare che la PGF è durata trent’anni.
Si dice che tutti gli imperi (la Francia dell’Ancien régime, la Spagna degli Asburgo, l’Inghilterra Vittoriana, l’impero Ottomano) siano finiti quando la spesa pubblica per gli interessi sul debito ha superato quella per la difesa: oggi gli Usa già pagano il 3,1 per cento del Pil di interessi contro il 3 per cento della difesa. Se l’«impero americano» non vorrà vedere la sua influenza drasticamente ridotta dalla SGF dovrà allocare una quota maggiore del suo bilancio alle spese militari e il deficit, oggi al 7 per cento del Pil, sarà destinato a salire nel tempo perché è impensabile che venga interamente coperto da nuove imposte. I mercati si concentrano su quando e di quanto la Federal Reserve taglierà i tassi, perché sono guidati da considerazioni di breve termine, ma il vero cambiamento strutturale sarà l’aumento duraturo dei tassi reali a lungo termine, e già si comincia a vederlo.
Tassi reali elevati a lungo termine avranno un forte impatto sull’economia reale, ponendo fuori mercato le imprese poco redditizie, scarsamente efficienti o che non sapranno innovare. Nell’economia da guerra fredda, la crescita della produttività sarà sempre più la chiave del successo.
Il panorama europeo
L’Europa rimane frazionata, per via della sua storia e dell’incapacità di vedere i vantaggi economici di una vera Unione: i Governi non vogliono rinunciare ai piccoli vantaggi della sovranità nazionale. Nella PGF ha delegato la sua difesa agli Stati Uniti, pur con tante ambiguità come la Ostpolitik tedesca e la dipendenza della Germania dal gas russo, o al diffuso anti-americanismo italiano. Nella SGF l’ombrello della difesa americano si chiuderà perché per gli Stati Uniti ormai è la Cina, non la Russia, il centro dell’asse.
Se l’Europa non vorrà finire schiacciata in questa contesa dovrà superare le ambiguità del passato e decidere per una difesa comune, che potrebbe essere finanziata solo con debito comune. L’onere sulle finanze pubbliche europee sarà aggravato dal crollo del tasso di natalità, che pone sulle spalle dei giovani il costo crescente del welfare di una popolazione che invecchia rapidamente. Rispetto alla PGF gli Stati Uniti hanno raggiunto la piena indipendenza energetica, mentre l’Europa pensando che il dividendo della pace durasse per sempre ha fatto affidamento proprio su Russia e Medio Oriente oggi in campo avverso, per le proprie forniture. Alla maggiore spesa pubblica per difesa e welfare, per l’Europa si aggiunge anche il maggior onere del costo della transizione ambientale, che dovrebbe essere vista non solo in chiave ecologica ma come unica via per l’autonomia energetica.
La sopravvivenza dell’Europa nella SGF comporterà anche da noi tassi reali a lungo termine elevati: ma il gap di produttività che ci penalizza rispetto agli Stati Uniti renderà più acuti i costi economici.
Una parte sostanziale del dividendo della pace, dopo il crollo del muro di Berlino, è venuta dall’apertura della grande economia cinese alle esportazioni europee; e alla simultanea delocalizzazione in quel paese delle nostre produzioni a basso costo. La globalizzazione, non la politica monetaria, è stata la principale ragione della bassa inflazione nel ventennio pre Covid. Ma con la SGF si alzano le barriere doganali per non essere invasi dai prodotti cinesi, che nel frattempo sono diventati acerrimi concorrenti delle nostre imprese.
Ma le tariffe aumentano il costo dei prodotti più economici, contribuendo ad aumentare l’inflazione; e il crollo del commercio internazionale penalizza maggiormente l’Europa, che per la crescita ha puntato sulle esportazioni, invece che sui consumi, come in America.
Tassi reali più elevati, minore crescita, maggiori disavanzi pubblici, maggiore protezionismo e caduta del commercio internazionale sono fattori che prospettano un’inflazione strutturalmente più elevata e richiedono un profondo ripensamento delle politiche monetarie e fiscali in Europa.
Ma su questo tema c’è solo silenzio. La SGF richiederebbe almeno una riflessione critica sul dogma del 2 per cento di inflazione (perché non una banda 1-3 per cento?) e del patto di stabilità (a quando il finanziamento comune dei programmi per difesa, ambiente e innovazione tecnologica?), di cui però c’è solo qualche labile traccia.
Macron lo ha detto chiaramente in un recente discorso alla Sorbona: «Negli ultimi anni è cambiato in modo fondamentale il modo in cui viviamo e produciamo», «Dobbiamo essere lucidi sul fatto che la nostra Europa non è immortale. Può morire. E dipende soltanto dalle nostre scelte»
Sarà pure retorica pre elettorale, ma è la realtà che ci rifiutiamo di vedere.
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