- Il regionalismo fa male all’Italia, e non solo all’Italia, ed è un freno allo sviluppo e alla crescita del paese.
- L’economista Leonardo D’Amico ha da poco pubblicato un paper per l’università di Harvard, che sancisce nei numeri il fallimento della gestione regionale dei fondi della politica di coesione europea, che investe in innovazione molto meno dei governi centrali.
- I responsabili politici a livello locale non sono incentivati a destinare i fondi in progetti innovativi ad alto sviluppo tecnologico che al momento non occupano lavoratori di quella regione. Una lezione per l’Italia del Pnrr e dei progetti di autonomia regionale.
Il regionalismo fa male all’Italia, e non solo all’Italia, ed è un freno allo sviluppo e alla crescita del paese.
L’economista Leonardo D’Amico ha da poco pubblicato un paper per l’università di Harvard che sancisce nei numeri il fallimento della gestione regionale dei fondi della politica di coesione europea.
La politica di coesione è nata per diminuire i divari di sviluppo tra un territorio e l’altro, e quindi tra le condizioni di vita dei cittadini dell’Unione, ma secondo D’Amico si incaglia nella gestione locale di miliardi di euro messi a disposizione dal bilancio europeo.
Scelte politiche razionali
La tesi di D’Amico è allo stesso tempo semplice e controintuiva: in una regione che non ha un tessuto produttivo ad alto valore aggiunto, i responsabili politici a livello locale non sono incentivati a destinare i fondi in progetti innovativi ad alto sviluppo tecnologico che al momento non occupano lavoratori di quella regione.
«Non stiamo parlando di politici corrotti o cattivi», premette l’economista al telefono dall’altra parte dell’oceano, «ma semplicemente di politici che rispondono a degli incentivi, in questo caso alle esigenze percepite della loro base elettorale». Per creare lavoro in un territorio con occupati con basse competenze, gli effetti indiretti a breve termine dell’investimento in innovazione, infatti, dovrebbero essere giganteschi e i politici fanno quello che sono incentivati a fare cioè rispondere alle esigenze del loro elettorato.
Poco importa che una inversione di rotta nel lungo termine avrebbe effetti benefici per il territorio nel suo complesso con un impatto molto maggiore che nelle regioni già innovative.
I dati
Per testare questa idea, D’Amico ha valutato il complesso dei fondi di coesione del settennato 2007-2013, l’ultimo per cui sono disponibili tutti i dati, considerando che i dati del settennato successivo terminato nel 2020 scontano ancora gli usuali ritardi nella spesa dei finanziamenti e nello sviluppo dei progetti.
Lo studio prende in esame i programmi del fondo europeo per lo sviluppo regionale (196 miliardi) e i fondi di coesione (69 miliardi), di cui un ottavo destinato a investimenti nello sviluppo tecnologico per le imprese, l'innovazione e la ricerca, e quindi teoricamente per lavori più altamente qualificati.
La gestione dei fondi Ue varia di stato in stato: la Commissione europea firma un accordo quadro con gli stati membri e sono le autorità centrali a decidere quali fondi saranno gestiti a livello centrale, a livello locale, ma sotto l’ombrello dell’autorità centrale o direttamente a livello locale.
«In Gran Bretagna erano stati creati dei Growth delivery team, letteralmente “squadre per la consegna della crescita” che dipendevano direttamente dal primo ministro, la Francia per evitare la distanza dal territorio che comporta gap informativi affida la gestione dei fondi ai prefetti, articolazione del ministero dell’Interno», spiega D’Amico.
Anche in Italia ci sono programmi operativi nazionali e regionali. Grazie a queste differenze, si può valutare l’impatto nelle scelte di investimento dei diversi livelli di amministrazione.
Meno 30 per cento di innovazione
Il risultato dell’analisi di D’Amico è abbastanza impietoso. «Nelle regioni con molti lavoratori poco qualificati, i fondi europei sono investiti meno in tecnologia, sviluppo e innovazione, ma solo se sono gestiti dai governi locali», si legge nello studio.
In questi casi a ogni aumento del cinque per cento di lavoratori con basse competenze corrisponde il 30 per cento in meno di investimento in innovazione rispetto ai fondi gestiti a livello centrale nello stesso territorio. Formalmente i fondi possono essere anche indirizzati in settori considerati di frontiera come la transizione ecologica, ma l’investimento è a basso impatto innovativo e tecnologico, perché spesso va a sussidiare imprese in declino.
La differenza tra le scelte dell’autorità centrale e quella regionale viene spiegata da D’Amico come una razionale scelta politica. Insomma, i politici locali non scelgono male, ma rispondono alla domanda, pure miope, del loro territorio. Semmai la questione è perché affidare loro la programmazione di ingenti finanziamenti.
Andando a esaminare il rapporto di valutazione della politica di coesione europea, si scopre anche quanti posti di lavoro hanno creato i diversi investimenti per ognuno dei programmi finanziati dai fondi europei.
I dati confermano che gli investimenti nello sviluppo tecnologico sono correlati alla creazione di un maggiore numero di posti di lavoro per ogni euro speso e quindi sono portatori di crescita anche nelle regioni dove l’educazione terziaria è meno sviluppata.
Per quanto riguarda l’Italia, poi, c’è anche una differenza di costo medio per posto di lavoro: nel Mezzogiorno è di circa 223 mila euro, mentre nel resto di Italia è di 140 mila euro, a fronte di una media a livello europeo di 147mila euro per ogni occupato.
La ricerca suona come una condanna senza sconti della politica di coesione europea basata sul regionalismo, una sentenza sulla sua incapacità di creare sviluppo.
«Le competenze affidate alle regioni in generale non aiutano a colmare divari tra i territori», sottolinea l’economista, «ma voglio chiarire che non si tratta di non prevedere protezione sociale per i lavoratori a bassa qualifica. L’idea è che i due fronti, quello del welfare e di tutele necessarie e quello dell’investimento in sviluppo e innovazione, non debbano confondersi».
Il rischio, infatti, è rispondere alla domanda di protezione con strumenti impropri, non centrando né l’obiettivo della tutela, né quello della crescita, ma innescando una spirale di non sviluppo.
Per l’Europa è una lezione da non sottovalutare, ma per l’Italia del divario strutturale nord sud e dei fondi europei che non si riescono a spendere per decine e decine di miliardi lo è ancora di più e per diverse ragioni.
Lo è visto che la nostra crescita futura resta legata a doppia mandata alla difficile esecuzione del piano di ripresa e resilienza e alle nuove promesse europee di fondi comunitari per la transizione ecologica. A maggior ragione mentre un governo che si dice deciso a puntare su nuove strategie industriali ha indicato nelle sue priorità una autonomia regionale che rischia di aumentare la discrezionalità politica degli amministratori locali.
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