-
Il dossier più delicato sul tavolo del governo è quello della rete unica. In gioco il destino di Tim e della fibra ultraveloce
-
Il piano di Cdp prevede l’acquisto dell’infrastruttura in capo a Tim. Ma Butti, fedelissimo di Meloni, ha intenzioni diverse
-
Gli interessi sono enormi. Tra questi ci sono quelli di Sittel, spa vicina al lobbista. Che attacca Scannapieco e Open Fiber
La grande guerra sulla cosiddetta “rete unica nazionale” sta per deflagrare. È vero che le truppe dei vari eserciti in campo si stanno dislocando sul terreno di battaglia da anni, ma le tensioni si sono improvvisamente acuite negli ultimi mesi, e rischiano ora di precipitare in un conflitto di cui nessuno può immaginare gli esiti.
Controprova delle tensioni crescenti, come vedremo, sono gli interventi dell’uomo che Giorgia Meloni ha voluto come arbitro della partita, il sottosegretario all’Innovazione tecnologica Alessio Butti. Le oscillazioni di borsa di Tim, ça va sans dire.
E la martellante campagna stampa contro Cassa depositi e prestiti guidata dal draghiano Dario Scannapieco lanciata da alcuni siti specializzati e da Luigi Bisignani, affarista iscritto alla loggia P2 («a mia insaputa», disse) editorialista principe del quotidiano Il Tempo e – ha scoperto Domani - assai vicino ad alcune aziende che lavorano nella posa della fibra ottica.
La partita
Andiamo con ordine, partendo dal contesto generale. Dell’unificazione delle reti in fibra ottica che oggi sono in capo sia a Tim (controllata a maggioranza dai francesi di Vivendi) sia a Open Fiber (il cui socio forte è Cdp, società a sua volta posseduta dal ministero dell’Economia) si discetta con costanza dai tempi del governo Conte I.
Tutti i protagonisti della partita sono convinti che l’unificazione dell’infrastruttura sia imprescindibile, e che l’operazione consentirebbe finalmente alla fibra (la tecnologia di trasmissione dei dati che permette di navigare su internet a grandi velocità) di raggiungere tutte le zone d’Italia. Diminuendo così i mostruosi gap territoriali che oggi penalizzano chiunque non viva, lavori e studi nelle poche aree (spesso le città e i comuni più grandi) dove il servizio funziona a dovere.
Se quasi tutti sembrano d’accordo con l’obiettivo finale, cioè una rete unica a controllo statale che permetta anche di difendere al meglio la sicurezza della nazione, sul “modus” con cui arrivare al fine le spaccature sono invece profonde. Divisioni figlie degli enormi interessi in gioco, e della presenza di attori in campo che hanno tornaconti assai diversi.
Una semplice cronistoria che dell’iter che ha portato all’oggi costringerebbe chi vi scrive a usare buona parte dello spazio dell’articolo che state leggendo. Dunque, sintetizzeremo lo stato dell’arte. Che vede da un lato l’indebitatissima Tim di cui Vivendi possiede il 24 per cento del capitale, il cui padron Vincent Bolloré sembra disponibile a cedere la rete e/o il controllo dell’azienda ma solo a condizioni vantaggiose (finora l’avventura iniziata nel 2014 non ha dato infatti i frutti sperati).
Dall’altra parte della barricata c’è la Cdp di Dario Scannapieco, amministratore delegato scelto da Mario Draghi che insieme a Mario Rossetti, capo di Open Fiber, ha messo a punto il piano – sottoscritto lo scorso maggio da Tim con un memorandum valido fino a fine di questo mese – per provare a comprare la rete di Tim e unirla a quella di Open Fiber.
Scannapieco, fino alla caduta del governo Draghi, aveva in mente un offerta ben precisa da recapitare ai francesi e ai loro alleati in cda per chiudere l’operazione: intorno ai 15 miliardi di euro. Troppo pochi, secondo Vivendi, che lo scorso giugno ha fatto veicolare sui giornali una valutazione da ben 31 miliardi di euro, ipotizzata dal suo advisor Rothschild.
Una cifra giudicata abnorme dai vertici di Cassa, che segnalano come un anno fa il fondo americano KKR lanciando una manifestazione d’interesse per un’offerta pubblica d’acquisto (Opa amichevole) sul 100 per cento delle azioni di Tim avesse valutato l’intera azienda, dunque rete compresa, appena 11 miliardi (pari al capitale sociale). Mentre è un fatto che oggi in borsa la capitalizzazione della società sconti un deprezzamento, essendo ormai inferiore ai cinque miliardi di euro. Non solo: «la valutazione che fa Cassa è simile a quella del gruppo australiano Macquarie, che partecipa con Cdp al capitale di Open Fiber per il 40 per cento», spiega a Domani una fonte vicina alla pratica. «Forse Scannapieco e Rossetti possono convincerli a salire a 16-17 miliardi massimo, ma non di più. Anche perché Tim caricherebbe sulla società che nascerebbe (la newco) oltre 20mila dipendenti. Senza l’ok dei soci australiani Open Fiber non può fare alcuna offerta».
Il braccio di ferro tra l’ad di Vivendi Arnaud de Puyfontaine e l’asse Draghi-Scannapieco si consuma da tempo proprio sul prezzo della rete in capo a Tim. Ma le frizioni si sono via via moltiplicate anche su altri fronti. Sia su quello sindacale, che vede alcune sigle preoccupate dal fatto che Tim privata della sua rete possa ulteriormente indebolirsi e cominciare a mettere in cassa integrazione i suoi dipendenti (sono 42 mila in Italia e oltre 9 mila in Tim Brasil)
Sia sul fronte interno all’azienda telefonica, investita da polemiche roventi sul alcune scelte di de Puyfontaine, braccio destro di Bolloré. Un anno fa il manager ha voluto come successore dell’ex ad di Tim Luigi Gubitosi il capo della divisione brasiliana Pietro Labriola. Finito di recente nel mirino di alcuni media perché negli ultimi mesi avrebbe rafforzato l’influenza in Tim dell’ex vj di Mtv Andrea Pezzi, oggi contemporaneamente proprietario di piattaforme tecnologiche che lavorano con il colosso telefonico con appalti da milioni di euro, advisor in Italia di Vivendi e amico intimo di de Puyfontaine.
Arriva Meloni
Le ambizioni divergenti e le spaccature si sono poi esasperate con l’arrivo del centrodestra al potere. La scadenza del memorandum tra Tim e Cdp che prevede il passaggio della rete in capo a Cdp- OpenFiber è stato procrastinato fino a fine di questo mese anche per permettere al governo entrante di studiare a dovere quello che è il più importante dossier economico e strategico sul tavolo di Palazzo Chigi, e fare in autonomia le sue scelte.
Ma se la premier Meloni finora non si è espressa, Butti sembra aver buttato nel cestino il progetto di Draghi e Scannapieco. Proponendo un piano alternativo, che ha battezzato “Minerva”, e che prevede che la rete resti in capo non a Open Fiber, ma a Tim. E che la stessa Tim, però, torni in mano allo stato. Un progetto di cui nessuno a ora ha mai visto un documento ufficiale: da quel che si è capito lo schema di Fratelli d’Italia costringerebbe Cdp e altri soggetti a lanciare un’opa su Tim, mossa che poi porterebbe a uno spezzatino dell’azienda (che non dispiacerebbe affatto agli azionisti, francesi in primis, che potrebbero monetizzare), mentre il debito netto monstre di 25 miliardi di euro rischierebbe di finire dritto dritto sul groppone dello stato. Dunque, sul debito pubblico.
L’idea di Butti ha eccitato la borsa, che da giorni sta puntando forte sull’ipotesi “Minerva” facendo oscillare il disastrato titolo verso l’alto. Nonostante il silenzio di Meloni sul tema e i dubbi del leghista Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia che controlla Cdp e che dirà la sua nella partita.
Ma i più entusiasti fan di Butti sono coloro che da tempo sperano che la rete unica si faccia sotto il controllo di Tim e non di Cassa. E alcuni media che da qualche mese stanno facendo una campagna durissima contro il piano di Draghi, il suo interprete Scannapieco e l’ad di Open Fiber Rossetti.
I critici di Cdp
Tra i critici più severi c’è un sito specializzato nel digitale, Key4biz diretto da Raffaele Barberio, che da giugno in poi (in contemporanea a un’interrogazione di Butti sui ritardi di Open Fiber nelle operazioni di cablaggio) ha scritto 42 articoli consecutivi contro la società e l’ad, la sua gestione «fallimentare» sul piano di messa a terra sulle cosiddette “aree bianche” (quelle in cui nessun operatore privato investirà mai in banda ultralarga, tasto su cui spingono anche le critiche di Butti pure intervistato da Barberio) e la sua policy aziendale.
Tra le accuse, Rossetti sarebbe reo pure di aver fatto scappare «dirigenti di rilievo» della spa come il capo degli acquisti Antonio Sannino (in realtà licenziato), Simone Bonannini (la cui uscita è stata ripresa con grande evidenza anche da Tag43 di Paolo Madron), le prime linee Paolo Perfetti e Paolo Germiniani (che hanno seguito in Enel la loro ex capa Elisabetta Ripa, predecessore di Rossetti) o l’ex braccio destro Giorgio De Guzzis, strappato a Open Fiber da Engineering grazie a un contratto invitante.
Al netto delle querele partite qualche giorno fa da Open Fiber e Rossetti contro il sito registrato in Calabria a Lamezia Terme, Scannapieco sta cercando da mesi di capire i motivi della campagna stampa. Se fonti vicine a Key4biz spiegano che trattasi «solo di inchieste giornalistiche», risulta che il portale sia controllata da Supercom srl, una società di lobby fondata da tal Silvana Torquati e dall’ottuagenario Raniero Dragonetti (già consigliere in una ventina di società di cinema, bingo e immobiliare) che negli ultimi anni ha incassato parcelle per circa 700mila euro l’anno dai suoi clienti. Presidente di Supercom è Alberto Mannelli, un professore di Ancona nominato negli anni dei governi Berlusconi nei cda di Buonitalia, Sace e dell’istuto Crea.
Il bombardamento di notizie contro gli uomini di Cdp da parte di Key4biz ha comunque funzionato: Butti due mesi fa ha organizzato un importante convegno sulle tlc a cui hanno partecipato tutte le più importanti aziende in Italia e i loro ceo. Unica assente illustre è stata Open Fiber. Moderatore del dibattito: il direttore di Key4biz Barberio.
Ma la guerra della rete e la volontà di screditare Cdp e Open Fiber come poli aggreganti del progetto Draghi (a vantaggio del piano Minerva e della Tim) vede in campo altri player della comunicazione con un peso assai maggiore. Almeno per il nome che hanno. Su tutti, Luigi Bisignani. Condannato in via definitiva per la maxitangente Enimont, alle spalle un patteggiamento a un anno e sette mesi per associazione a delinquere per il caso P4 (va sottolineato che il coimputato Alfonso Papa, seguendo l’iter processuale classico che il lobbista non ha scelto «per motivi familiari», è stato invece assolto da identiche accuse), il lobbista scrive spesso articolesse su potere e politica sul quotidiano romano della famiglia Angelucci.
L’ira di Bisignani
Da qualche mese, la sua attenzione è concentrata su Tim e l’affaire della rete unica, a cui ha dedicato pezzi «sull’inconsistente» Scannapieco affetto da «incapacità e delirio di onnipotenza che sta distruggendo il valore di Tim», contro il «sinistro Richelieu di Draghi» Francesco Giavazzi e gli «incapaci» vertici di Open Fiber. Il cui piano di trasferimento della metterebbe a rischio «un’azienda storica come Tim» e il destino dei suoi «42 mila dipendenti».
Novello esperto di fibra ottica, l’affarista crede invece alla bontà del piano Minerva di Butti, e si preoccupa del destino di alcuni manager come l’ex capo degli acquisti di Open Fiber Sannino, «epurato senza complimenti dall’ad di Open Fiber». O come Stefano Siragusa, direttore generale di Tim che è uscito dall’azienda lo scorso agosto, e che Bisignani oggi crede abbia tutte le carte per diventare il prossimo capo al posto di Labriola.
Ma come mai l’uomo che sussurrava ai potenti (titolo di un libro di successo scritto a quattro mani con l’amico Madron) è così interessato alla guerra sulla rete unica? Forse si tratta di semplice curiosità intellettuale. Ma è un’evidenza acclarata - come ha scoperto Domani - che Bisignani sia legatissimo a un’azienda che negli ultimi anni ha ottenuto contratti d’oro sia da Tim sia da Open Fiber. Attraverso gli appalti milionari sulla banda larga, il cui giro d’affari complessivo in Italia (tra materiali e messa in opera) è di alcuni miliardi di euro l’anno.
Mistero Sittel
La ditta in questione si chiama Sittel. Una spa il cui dominus è l’imprenditore Pietro Mazzoni, vecchio amico di Bisignani che gli ha fatto, come conferma l’avvocato Giuseppe Rappazzo un contratto di consulenza nel marzo del 2018.
«Fui io stesso ha preparare l’accordo con Bisignani, il suo compenso doveva essere intorno ai 100-120 mila euro l’anno», spiega il professionista che ha lavorato per anni con Sittel prima di uscirne con un credito da 1,2 milioni di euro ancora inevaso: «Mi pare dovesse occuparsi di comunicazione e pubbliche relazioni».
Ma chi è Mazzoni? In primis, un piacentino diventato celebre tra gli addetti ai lavori per alcuni fallimenti non banali. Come quella di una società che lavorava per Fs alla pulizia dei treni (la Pietro Mazzoni Ambiente) e quella di “Nuove Telecomunicazioni”, spa saltata nel 2016 per debiti nei confronti dell’erario pari alla bellezza di 60 milioni di euro. Per quel dissesto l’imprenditore fu arrestato dalla procura di Roma nel 2019, e risulta che l’imputato abbia patteggiato nel 2020 due anni di carcere per bancarotta fraudolenta.
Ora, nonostante le disavventure giudiziarie ed economiche, Mazzoni è riuscito a risorgere dalla polvere. Fondando nel 2016, subito dopo il crac di Nuove Telecomunicazioni, proprio la Sittel. Attraverso un atto di scissione parziale da un’altra società mal messa e finita in liquidazione, la Mazzoni Pietro Spa.
I documenti della camera di commercio segnalano che la proprietaria della nuova azienda è Benedetta Valentini, avvocato incensurato e moglie di Mazzoni. La donna dal 2019 è diventata anche consigliere delegata a tutta l’amministrazione. Pietro, esperto del commerciale e capace di portare a casa contratti da sogno da Tim, Open Fiber, Enel e Huawei, si è tenuto invece la poltrona di direttore strategico.
Nonostante il crac della Mazzoni Pietro spa, la neonata Sittel tanto cara a Bisignani (anche la segretaria storica del lobbista, Rita Monteverde, viene assunta da Mazzoni) fa subito incetta di appalti sulla fibra. Bilanci alla mano, solo nei primi sei mesi di vita fattura 22 milioni, diventati 54 nel 2017. Numeri spaziali anche gli anni successivi, grazie soprattutto ai contratti che arrivano da Tim e Open Fiber, al tempo partecipata a metà da Cdp ed Enel.
Cortesie tra amici
Ora, è certo che direttore degli acquisti di Open Fiber era Sannino, che Bisignani difende sul Tempo. Risulta a Domani che il manager napoletano conosceva bene Mazzoni prima di arrivare in Open Fiber, tanto da aver aiutato la Pietro Mazzoni Spa nella gestione dell’albo fornitori. Siamo davanti a un doppio conflitto di interessi? Sannino ha spiegato ad alcune fonti sentite da Domani che ha sì assistito Mazzoni a cui Open Fiber ha affidato poi appalti a sei zeri, ma senza mai prendere né stipendi né omaggi. Solo per una cortesia tra amici.
In sintesi Sannino nega qualsiasi conflitto di interesse, «tanto che» ha confidato a un manager che lo conosce «a seguito di diverse inadempienze di Sittel e del consorzio Consittel (di cui il gruppo Mazzoni è socio insieme a Tim Servizi Digitali, ndr) da direttore acquisti ho firmato appositi provvedimenti per ridurre il perimetro dei lavori assegnati al fornitore».
La crisi
Sarebbe affrettato ipotizzare che l’astio di Bisignani nei confronti di Rossetti sia dovuto anche al fatto che l’ad abbia cacciato il manager che lavorava gratis per Mazzoni. È sicuro però che la Sittel nonostante le difficoltà in Cassa abbia continuato a macinare fatturato da capogiro anche nell’anno pre-pandemico, e che nel 2020 si contano 51 milioni di ricavi con un utile di un milione.
La società sognava perfino di conquistare il nuovo mondo sbarcando in Brasile: Mazzoni ha fondato Sittel Do Brasil per provare a buttarsi nel mercato della fibra anche tra Rio e San Paolo (per la cronaca, capo di Tim Brasile era l’attuale ad Pietro Labriola) ma qualcosa non ha funzionato. La società non ha ottenuto i contratti sperati ed rimasta inattiva.
In Italia (in Tim sono gli anni dei capo azienda Amos Genish e poi di Luigi Gubitosi, Siragusa è il capo della rete e presidente di Inwit) per Sittel tutto sembra andare bene. Poi, d’improvviso, il precipizio. Nel 2021 la società prima denuncia uno strano hackeraggio con la perdita completa dei dati sull’avanzamento dei lavori, poi gli operai cominciano a non essere pagati, mentre i ricavi (per il 65 per cento legati a Tim) crollano della metà. Soprattutto i bilanci mostrano magagne inaspettate: l’ultimo prospetto per l’anno 2021 evidenzia un rosso da ben 42 milioni, e debiti complessivi per 65 milioni. Di di cui circa 19 milioni (di nuovo) con il fisco.
Sittel si è presentata linda e pulita davanti ai suoi clienti. Ma fin dall’inizio aveva un debito in pancia che aveva dissimulato (legalmente) in un altra spa. Cioè la Antiochia Sas, intestata al cognato di Mazzoni, che nel 2019 dopo una scissione societaria si era caricata tutti i debiti della vecchia Pietro Mazzoni spa. La bellezza di 86 milioni di euro, cifra transata con l’erario e scesa a 28 milioni. L’accordo con l’agenzia delle entrate prevede che vengano restituiti in 12 tranche annuali.
Il soccorso di Tim
Mazzoni pensa di poter pagare senza problemi. Ma la crisi è forte, e il rischio di un altro crac è alle porte. A sorpresa è Tim a venire incontro al suo fornitore: nell’agosto del 2021 la controllata Tim Servizi Digitali decide di affittare un ramo d’azienda di Sittel (quello inerente i contratti stipulati con Tim sulla fibra) per un minimo di sette anni, con l’opzione per altri due.
Tim si carica sulle spalle oltre 200 dipendenti della Sittel, e contemporaneamente si impegna a consegnare alla spa della famiglia Mazzoni 2,5 milioni di euro l’anno a canone fisso, che possono pure aumentare di un milione attraverso una componente variabile. Secondo i maligni si tratta di un regalo inspiegabile a una spa che da anni «ha problematiche con i suoi appalti», come accusano i sindacalisti dei Cobas Tim.
Mentre secondo fonti vicino a Gubitosi e Siragusa, al tempo numero uno e due di Tim, l’affitto è un’operazione corretta e vantaggiosa. Che non ha però impedito qualche settimana fa alla Sittel di chiedere al tribunale l’accesso al concordato preventivo della società.
Le domande che restano
Abbiamo chiesto a Bisignani se a oggi mantiene ancora la consulenza con Sittel e che tipo di lavoro fa per Mazzoni. Soprattutto, se si fosse mai interfacciato con manager di Tim e di Open Fiber.
«Sono anni che non ho più quella consulenza nata da un rapporto di antica amicizia con l’ad del tempo di Sittel, Giulio Lomuto, conosciuto al Mef nel 1978 e morto nel 2019. Era finalizzata ad un ampliamento della società in Italia al settore elettrico, che non si è poi realizzato», spiega senza aggiungere dettagli.
«Sulla rete unica scrivo da sempre che Cdp, che se ne duole apertamente, avrebbe dovuto da tempo prenderla e gestirla tutta anziché perdere tanto tempo come è ormai sotto gli occhi di tutti gli analisti. Il dottor Mazzoni, da sempre fornitore delle società telefoniche, non aveva certo bisogno di me in quel periodo per interloquire con i suoi abituali interlocutori».
Se la Valentino, proprietaria di Sittel, non ha risposto al telefono, alcune domande emergono immediate. Possibile che Tim e Open Fiber non conoscessero i debiti fiscali della spa di Mazzoni a cui affidavano appalti milionari su un’infrastruttura strategica come la rete unica? È plausibile che non conoscessero la storia dei crac a catena dell’imprenditore piacentino? Qualcuno ha mai scaricato i bilanci della società che mostrano i vari debiti tributari o letto i giornali che nel 2019 davano conto dell’arresto di Mazzoni per bancarotta fraudolenta?
Nel frattempo che si compia il destino della spa per cui Bisignani ha lavorato, la battaglia della fibra continua. Le truppe contrapposte sono sistemate nei bunker, in una partita che si è trasformata in una guerra di trincea.
Sarà il governo Meloni a doverla sbrogliare in tempi brevissimi, visto che il memorandum tra Tim e Open Fiber scadrà tra il 30 novembre. Si capirà così se la premier prenderà in mano il vecchio piano di Scannapieco e Labriola (anche forzando la mano ai francesi, come spera qualche sovranista) oppure virerà sul piano Minerva del suo fedelissimo Butti. Che tanto piace a chi tifa per l’Opa su Tim. E a chi vuole fare fuori gli avamposti lasciati da Mario Draghi nelle partecipate e nel deep state.
© Riproduzione riservata